MEMORIE DI ORRORI (contenuto Ustica, Bologna)
Nell’estate di 40 anni fa si concentrarono le due stragi di più vaste dimensioni che hanno insanguinato il nostro Paese: 81 le vittime del DC 9 abbattuto da un missile sui cieli di Ustica ed altre 85 quelle conseguite all’esplosione dell’ordigno alla stazione di Bologna.
Ad oggi gli accertamenti giudiziari hanno condotto a risultati parziali e discutibili: del resto, è innegabile che i modi di leggere i documenti intorno ad un fatto dipendano dalle diverse strategie operative applicate, dal punto di vista del lettore o dei lettori, da quello di chi ha prodotto quei determinati documenti, dalle circostanze che li hanno prodotti, da quelle che li hanno portati nuovamente alla luce, dalle aspettative che si hanno, dagli obiettivi prefissati, dalla curiosità, dai rapporti di forza fra chi li analizza e da innumerevoli altri fattori.
Questo perché i documenti si prestano ad una molteplicità di approcci possibili, aprendo una verità che è sempre una verità di relazione (ma che per il fatto d’esser di relazione non è per questo meno vera, come certe espressioni del relativismo culturale hanno cercato di sostenere).
Per secoli si è pensato che la verità fosse una “cosa” indipendente, che si poteva scoprire o rivelare, ma che rimaneva in sé immutabile e intangibile; ma nel nostro secolo le cose sono cambiate e i criteri tradizionali di verità han cominciato a esser messi in discussione per aprirsi a una visione più “debole”, più “relazionale” della verità.
Si sostiene anche che la verità storica sia irraggiungibile; le altre sono quelle che si raggiungono lungo tutto lo svolgimento del processo e, di conseguenza, verità a metà o verità instabili.
In un’ottica costituzionale, quindi, alla verità si giunge tramite il processo penale, vale a dire quella serie di attività compiute da giudici indipendenti nelle forme previste dalla legge e dirette alla formulazione, in pubblico contraddittorio tra accusa e difesa, di un giudizio consistente nella verificazione o falsificazione empirica di un’ipotesi accusatoria e nella conseguente condanna o assoluzione di un imputato.
Ed il carattere essenziale del modello garantista -recepito nella nostra Costituzione- è nel concetto di verità che esso fa proprio: non una verità sostanziale, assoluta, materiale, bensì una verità formale, debole, relativa perché umana, che non pretende di essere la verità.
Il modello garantista respinge il mito della verità come corrispondenza, riconoscendogli al massimo la natura di principio limite, mai compiutamente raggiungibile; in aderenza alle più accreditate risultanze epistemologiche, anch’esso sposta l’accento dalla verità al rigore ed eleva le regole procedurali da mere condizioni di validità delle decisioni giudiziarie, a vere e proprie condizioni di verità delle stesse.
Il processo penale, dunque, non può che accertare una verità processuale, una ”verità limitata, umanamente accertabile e umanamente accettabile del caso concreto” (così scrive la Corte di Cassazione penale).
La verità processuale è per forza approssimativa: l’idea contraria, secondo la quale si possa giungere in ambito processuale ad una realtà assoluta e certa, viene definita come un’ingenuità epistemologica.
Ma se queste riflessioni sorgono da una malintesa concezione di verità processuale diversa e disgiunta dalla verità materiale, occorre fare un passo ulteriore e chiedersi se sia ancora il caso di proporre la dicotomia tra verità processuale e verità storica.
Siamo inevitabilmente condizionati dall’idea razionalistica per la quale la verità è un insieme di proposizioni evidenti da cui si potrebbero ricavare delle conoscenze fondate su valori certi; per converso, molta parte del relativismo contemporaneo rifiuta l’idea stessa di una verità uguale per tutti perché continua a concepirla in modo razionalistico trovandola, così, insostenibile.
La verità, in altri termini, assume forme diverse in rapporto alle circostanze in cui si manifesta, ma mira sempre a produrre un unico effetto: quello di dissolvere le opposizioni che via, via, si formano nella prassi tra “uomo e uomo” così che sia consentita la comunicazione tra soggetti.
Questo fine viene perseguito nel processo e ne è il principio, è ciò che costituisce il processo come momento insopprimibile della vita sociale prima e oltre le sue determinazioni empiriche ottenuta con le norme giuridiche.
Che il meccanismo probatorio processuale si trovi, molto spesso, nelle circostanze oggettive di non poter ricostruire fedelmente il fatto storico oggetto dell’imputazione è una circostanza difficilmente controvertibile, ma che questa constatazione giunga a delineare due verità differenti, quasi che nel processo si costruisca qualcosa di diverso e avulso dalla realtà è sbagliato, oltre che pericoloso.
La verità è una e tale rimane anche quando deve essere ricostruita nell’ambito del processo penale e c’è allora similitudine di fondo tra il compito del giurista e quello dello storico; all’avvocato e al pubblico ministero che sostengono la propria causa e anche al magistrato che motiva la sentenza si chiede, come allo storico, capacità argomentativa: convincere attraverso lo sviluppo di un ragionamento.
La storia però ci insegna che coloro che credono di aver trovato le chiavi della Giustizia e della Verità, qualunque sia il campo in cui operano (la politica o la giustizia), sono particolarmente esposti al rischio di pensare di dover affermare la loro Verità senza troppo badare ai modi e ai mezzi.
Partendo da questa considerazione e tornando ad Ustica, in relazione a Bologna, credo che si possano allora mettere in fila alcuni pensieri, basati sui pochi elementi oggettivi a disposizione, perché si possa riflettere assieme e da uomini liberi al riguardo, nell’ottica di quella cocciuta ricerca della verità su quelle due stragi:
- I tempi ravvicinatissimi dei due attentati, sicchè il secondo ha oscurato mediaticamente il primo
- I depistaggi orditi dagli apparati dello Stato -non chiamiamoli deviati che già sarebbe fuorviante- in relazione ad entrambi, accertati in sentenze passate in giudicato
- Le sentenze civili di Tribunali, Corti d’Appello e della stessa Cassazione su Ustica, tutte concludenti per la tesi del missile lanciato da un aereo militare che seguiva, occultato, la scia del DC 9
- Il ritrovamento del Mig libico sulla Sila il 18/7/1980, ma la cui caduta, in base ad argomenti scientifici precisi, venne fatta risalire in realtà alla stessa notte del 27/6 precedente
- Non si sono sviluppate indagini correlate ed articolate fra i due episodi
- Anche ora gli armadi dei segreti di Stato restano chiusi nelle parti essenziali, in riferimento ad entrambi questi massacri di innocenti.
Ed è a questo proposito che, fermi gli altri punti, si impone ora una presa di coscienza ed una iniziativa comune, essendo passati 40 anni: forse è ancora troppo presto per pretendere la verità storica e processuale su quei fatti, nella pienezza di conoscenza di tutti documenti che le riguardano ?
E’ una libertà che non possiamo ancora permetterci di rivendicare ?
Un fatto è certo e dobbiamo urlarlo: il segreto che ancora oggi si oppone all’accesso pieno e senza limiti da parte della Magistratura e delle difese a quelle carte è un segreto che trova protezione nelle leggi del nostro Stato, non imposte da una entità superiore che lo Stato stesso, del resto, in quella materia, non potrebbe riconoscere.
186 innocenti, la cui vita è stata cancellata da quei due eccidi, così come i diritti di difesa di chi è stato parte nei relativi processi ancora oggi sono vilipesi: allora, almeno, smettiamola di prenderci in giro rivendicando di essere uno Stato civile, democratico e di Diritto, quando quello Stato, dopo che allora non seppe proteggere i propri cittadini, oggi è ancora disposto a coprirne gli assassini.
Avv. Gabriele Bordoni
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