UNA STORIA PASSATA (contenuto: assise, esperienza)
Maggio 1994; avevo 29 anni, sposato da poco, praticavo ancora la mia disciplina marziale con passione e costanza e ritenevo di aver cominciato a comprendere abbastanza bene gli elementi essenziali di quella Professione che mi avrebbe occupato da lì a breve pressochè tutto il tempo della mia vita.
Era un venerdì mattina ed ero rientrato da un’udienza quando vidi nella cassetta dei telefax -già, erano quelli ancora i tempi in cui arrivavano così molte comunicazioni, non esistendo la posta elettronica e le tante altre forme di messaggistica di oggi- un avviso della Corte d’Assise d’Appello che mi informava della mia nomina come difensore di un imputato, a me totalmente sconosciuto.
L’Ufficio di provenienza mi destò particolare curiosità, mista ad euforia ma anche ad un po’ di timore, sicchè mi affrettai a telefonare in cancelleria per saperne di più, fiducioso che Antonio Soluri si fosse trattenuto sino a tardi e potesse riscontrare la mia urgente necessità di informazioni; infatti, lo trovai e mi spiegò in poche parole, comprendendo il mio stato d’animo, trattarsi di un uxoricida condannato in primo grado al massimo della pena che, giunto a Bologna in cautela, aveva pensato di nominarmi per il processo di appello che si sarebbe celebrato da lì a poco.
Immediatamente pensai trattarsi di un equivoco, parendomi evidente che quest’uomo volesse nominare mio padre, il cui prestigio ed autorevolezza professionale si sposavano bene alle esigenze di chi cercava di variare il corso del proprio destino in un processo di Assise; e con questa riserva mentale, rassicurante, l’indomani andai a trovarlo in carcere alla Dozza.
Ovviamente ero già stato tante volte in quella struttura, della quale avevo avuto modo di conoscere le prassi e la conformazione, sicchè sapevo da quale porta sarebbe comparsa, in fondo al corridoio, questa persona, dandomi modo così di unire un nome ed un cognome ad una fisionomia, ad una voce, ai suoi pensieri.
Uscii allora sulla porta della saletta colloqui in cui ero stato fatto accomodare dagli agenti penitenziari che, nell’accompagnarmi, non mi avevano saputo spiegare nulla più circa quella scelta difensiva, limitandosi a scuotere il capo allorchè chiesi loro se si trattasse di un processo complicato (anche se, in cuor mio, continuavo a credere che se ne sarebbe occupato il mio Maestro, sicchè il peso non sarebbe stato mio).
Essendo sabato, in quel momento non vi erano altri colloqui in corso e così, nel silenzio, attesi quei minuti che mi separavano dall’incontro con trepidazione, in quanto era la prima volta che mi trovavo a conferire con un imputato chiamato a rispondere della morte di una persona; pur strenuo paladino della presunzione di non colpevolezza -nella mia baldanza giovanile di allora, così che nella mia attuale disillusa maturità- la sentenza di primo grado e lo sguardo disincantato degli addetti alla sala avvocati mi avevano portato a ritenere che probabilmente trattavasi davvero di un assassino.
Che sguardo avrà un uomo capace di privare della vita la madre dei propri figli ? Quali espressioni mi rivolgerà ? Che cosa sarà capace ed avrà voglia di raccontarmi; dalla data di nascita riportata su quell’avviso avevo anche notato essere parecchio più maturo di me ed, a maggior ragione, mi chiedevo come si sarebbe rivolto ad un giovane difensore che in Assise sino ad allora si era limitato ad accompagnare chi gli aveva trasfuso la passione forense e non aveva mai affrontato un processo per omicidio.
Furono momenti intensi e mi sentivo un po’ frastornato: avendo -per carattere, educazione e costruzione mentale- l’abitudine di studiare e prepararmi a quel che vado a fare, ma sapendo anche di non essere incapace di adattarmi e di trarre dalla fantasia e dall’istinto la soluzione dei problemi che mi si propongono, mi sforzavo di autoconvincermi che in qualche modo avrei saputo tenere testa a quella situazione così nuova e particolare, comunque si fosse sviluppata. E poi, al postutto, dovevo essenzialmente chiarire un equivoco.
La porta sul fondo si aprì mentre ancora congetturavo e comparve quest’uomo che incedeva a passo regolare, abbastanza fermo e spedito, verso di me; quando fu a qualche metro, ne misi a fuoco le fattezze e, nel contempo, rilevai con un certo saliente sgomento che non si mostrava affatto sorpreso di vedersi di fronte un trentenne, anziche un ben più attempato avvocato.
I ruoli si erano di colpo invertiti: io che -da affascinato lettore di Lombroso- mi sorprendevo di come costui avesse un aspetto assolutamente insospettabile rispetto al crimine efferato di cui era chiamato a rispondere e lui che rimaneva impassibile ed, anzi, accennava ad un sorriso benevolo e cordiale trovandosi al colloquio con me, perché proprio me stava aspettando; capii in quel momento che non vi era alcun equivoco nella sua designazione del nuovo difensore e compresi, nello stesso istante, che davvero ogni uomo rinchiude un mistero dentro di sé, capace di celarsi, restando in agguato e sopito dietro l’apparenza più ordinaria.
Entrammo nella saletta ed il mio primo intento fu quello di mascherare tutto quel crogiuolo di pensieri che albergavano nella mia mente, rivolgendo immediatamente l’attenzione ai problemi di quest’uomo; non potevo propormi come un navigato assisista, ma nemmeno volevo risultare uno che non se la sentiva di raccogliere quella sfida, nascosta dietro a quella richiesta di aiuto.
Ed, allora, mi concentrai ascoltando il racconto del “mio assistito”, scrutando la sua mimica e scavando nei suoi occhi perché me ne rivelassero un po’ l’anima, non tanto la verità che, del resto, non ho mai preteso da nessuno che mi venisse raccontata.
Non sapevo nulla della storia retrostante quel processo e non avevo avuto materialmente la possibilità di ottenere copia nemmeno della sentenza, così ascoltai la sua versione e compresi subito che, come esordio davanti ad una Giuria popolare, mi era proprio capitata una storia complessa.
La moglie, cassiera presso un supermercato, era scomparsa la mattina di un sabato di dicembre del 1991 ed il suo corpo, attinto da venticinque coltellate tutte localizzate fra collo e petto, era stato gettato in una discarica ove era stato rinvenuto alcuni giorni dopo da un passante; era stato il marito l’ultimo a vederla viva ed aveva raccontato di averla lasciata all’ingresso del negozio, laddove nessuno però l’aveva vista entrare, mentre l’epoca della morta era stata collocata grossomodo in quelle ore. Il rapporto fra i due si era logorato nel tempo e la donna voleva separarsi, ipotesi che l’uomo non voleva nemmeno considerare; sicchè le tensioni erano divenute crescenti ed i figli della coppia ne soffrivano. Negli ultimi tempi, era insorta nel marito anche una malsana gelosia verso la moglie che lo aveva fatto sospettare che lei coltivasse altra relazione.
Insomma, in difetto di alternative plausibili, mi sembrava che la questione fosse davvero complessa e l’esame degli atti -nei quali mi calai dal lunedì seguente e sino al processo- me lo confermò appieno.
Il nostro colloquio durò oltre un’ora e poi ci congedammo; lui non mi spiegò perché avesse scelto me, ma mi confermò che ero davvero io la sua scelta, non vi erano fraintendimenti; ne ero istintivamente orgoglioso -anche se razionalmente mi sembrava una scelta poco prudente, vista la mia inesperienza, a quell’epoca, di quei processi del genere- e così lo salutai con naturalezza, facendo prevalere, nelle parole di commiato, il cuore di chi cerca di riconoscere negli altri le proprie debolezze ed è pronto a battersi sempre, nell’interesse del difeso e di quella Giustizia che spetta ad ogni essere umano.
Rientrato in Studio, cercai mio padre e gli chiesi se dovessi e potessi accettare quella difesa e se magari pensava che sarebbe stato bene affiancarmi.
Mi guardò con quel suo fare accomodante, seppure intimamente austero, rassicurandomi: conosceva la mia meticolosità nell’analisi dei fascicoli e mi aveva già ascoltato in diversi processi, anche complessi e me l’ero cavata abbastanza bene, sicchè potevo assumermi quella responsabilità trovandomi adeguato; poi, ad una età ancora più verde di quella che io avevo allora, lui aveva vissuto la guerra e quanto ne era venuto di seguito, quindi non dovevo avere timori di sorta ad affrontare quel mio “battesimo di fuoco”.
Mancavano dieci giorni all’udienza e li passai sistemando le ordinarie e già previste quotidianità professionali e studiando tutte le pagine che componevano quei vari faldoni del processo; andai anche a fare un paio di allenamenti, ring e sacco, per allentare la tensione muscolare e mentale che sentivo crescere progressivamente.
Poi venne il giorno, anticipato da una notte certamente ancor più breve delle solite, per me aduso oramai a leggere sino a tardi ed alzarmi presto; con l’aria un po’ tesa di chi va verso l’ignoto, ma con la determinazione a dar battaglia sull’unico aspetto di quella vicenda che mi pareva lasciasse spazio ad una rivisitazione del complesso probatorio, salii la scalinata maestosa di palazzo Baciocchi ed entrai nell’aula Bachelet, ritrovandola sin troppo popolata da curiosi e dai giornalisti della cronaca, oltre che dai parenti della vittima e dell’imputato e dai rispettivi gruppi di amici e conoscenti, separati da un invisibile steccato che li teneva a distanza.
Giunsi al “mio” banco, quello stesso che avevo visto tante volte occupato da mio padre ed altri Principi del Foro e quel giorno destinato a me soltanto; oltre le sbarre, il mio assistito, impassibile e quasi assente che mi rivolse un sorriso ed un cenno di saluto ed al quale andai a porgere la mano e qualche parola, forse un po’ rotta dall’emozione ma comunque capace di fargli sentire che il suo difensore, pur avendogli rappresentato la notevole difficoltà del processo, c’era ed aveva maturato un’idea interessante, capace di fare mutare le sorti di quel processo.
Era una questione di natura istruttoria preliminare che poteva indurre una rinnovazione di una prova testimoniale capace di aprire un dubbio ragionevole (molto prima che quel concetto diventasse norma) nelle menti dei Giudici, dei togati ma soprattutto dei popolari che avevano da confrontarsi con il peso del destino di quell’uomo; un tale doveva essere risentito perché puntualizzasse una circostanza determinante in termini di orari che ne avrebbe comportato il complessivo necessario riassetto ricostruttivo, aprendo un’ipotesi alternativa e consentendo all’alibi dell’imputato di reggere.
Quando, esaurite le formalità di costituzione del processo, il Presidente chiese se vi fossero questioni preliminari o che logicamente andassero trattate all’esordio, con una certa spavalderia -la stessa che nasce in noi quando sappiamo di essere di fronte all’ineluttabile ed, allora, scegliamo di affrontarlo a testa alta e con sguardo dritto e determinato- chiesi di poter rappresentare la mia postulazione probatoria e mi venne così concessa la parola, per la prima volta in un processo di quel tipo e di fronte ad un Giudice per me nuovo come composizione e numero.
Accesi il microfono, mi sistemai la toga -quel giorno come e più che mai mio usbergo, oltre che simbolo della funzione che incarnavo- e cominciai ad illustrare il mio pensiero, con puntualità e senza tentennamenti, anzi, con una crescente vis espositiva.
Una critica garbata -quale non poteva che essere, essendo portata dalle parole di un giovane apprendista d’Assise- ma ferma e perentoria che sorprese visibilmente chi mi ascoltava: il Relatore che più di tutti conosceva il tema e che comincio a risfogliare la relazione che teneva avanti a sè, il Presidente che non riuscì a trattenere un sorriso benevolo per quell’avvocato che -avendo metà dei suoi anni biologici e d’esperienza professionale- sapeva tuttavia cavarsela in quel frangente ed i Giudici popolari, nei cui occhi cercai di affondare i miei perché, leggendone la trasparenza, si convincessero che la parole corrispondevano appieno al pensiero di chi le stava lanciando a rimbombare in quella grande aula (mio padre mi aveva detto una volta: stai attento, perché i tuoi occhi parlano e se non credi a quel che stai dicendo, si capisce….).
Il più stupito -e tanto mi inorgoglì- era il Procuratore Generale Iadecola, destinato negli anni a seguire ad una esaltante carriera che lo avrebbe fatto risaltare come grande, autentico e raffinatissimo Giurista; replicò al par suo, ma si capì che il tema da me posto gli era giunto inaspettato, apparendogli effettivamente insidioso rispetto alla teoria accusatoria, recepita pienamente nella prima sentenza.
Al suo tacere, la Corte si alzò e si ritirò in Camera di Consiglio, per decidere in relazione a quel punto, avendone colto il carattere di dirompenza; così mi riportai vicino al mio difeso, ribadendogli che se non avessero seguito quell’invito all’approfondimento di quella prova sarebbe stato un segnale univoco di conferma della decisione ed, a quel punto, sarebbe stato bene chiedere una pausa e riflettere sull’opportunità di raccontare alla Corte qualcosa di profondo, di difficile, di lacerante, ma di vero ed indispensabile; lui mi guardò impassibile, senza replicare, soltanto un po’ corrugato nell’espressione.
Dopo oltre un’ora, la Corte non usciva ancora e si erano così esauriti gli scambi di osservazioni e di umori con i giornalisti di cronaca presenti, con lo stesso Procuratore Generale e con un paio dei miei Colleghi di Studio che, prudenti e un po’ defilati, mi erano venuti a seguire in quel debutto nel penale più palpitante per un Avvocato, lasciando mio padre e mia madre, altro pilastro dello Studio, ad attendere il mio rientro, non parendo loro opportuno seguirmi personalmente in quella tappa della mia vita.
Rientrato intanto dalla propria cancelleria, dove si era rifugiato uscendo dall’Aula assieme alla Corte, Antonio mi fece a quel punto un gesto e mi chiamò vicino a lui: “ma allora ci sei, Bordoncino, ci sei proprio; bravo!”.
In quel momento compresi che il mio destino era forse compiuto; la Professione che sino a quel momento avevo apprezzato ed iniziato a conoscere, dedicandomi con passione ed impegno, quella Professione poteva quindi essere mia, avendone guadagnato sul campo il primo ma fondamentale gallone d’esordio.
Preso da questo pensiero intimo ascoltai, dopo un’altra mezz’ora buona, la lunga ordinanza letta dal Relatore che, in varie pagine di articolata motivazione, finiva per respingere la mia istanza, deludendo comprensibilmente le mie aspettative; ma i processi non sono favole e non vanno sempre nella direzione che noi auspichiamo, non hanno il fine cinematograficamente azzeccato, essendo legati a mille fattori
Anche per questo vanno affrontati lealmente, responsabilmente e con la massima tenacia ed il più deciso coraggio; ed allora andiamo avanti, anche se la sorte mi pareva oramai segnata.
Infatti, dopo due Udienze di bel confronto dialettico la condanna venne confermata e fu quella che rimase ferma anche in esito al ricorso in Cassazione che, troppo giovane, non potei allora curare.
Come avevo anticipato a quella “sfinge” dell’imputato, la scelta di non sondare meglio quel testimone significava che la Corte riteneva comunque che la condanna fosse probatoriamente ben munita; ma rispettai quella sua scelta di restare sino all’ultimo imperterrito nella sua completa chiusura a qualsiasi confronto con la Corte e, soprattutto, con la propria anima.
Così, il destino di quell’uomo e della sua libertà, ma anche il mio di Avvocato e della vita che sarei andato a tracciare da quel giorno in avanti, erano stati scritti, nel tepore di quel maggio, lusinghiero di una eterna primavera, aulente dei tigli che fecero ombra al mio cammino, nel rientro dalla Corte verso la mia scrivania; quella scrivania, sulla quale si sarebbero sparpagliate da allora le carte di centinaia di processi, pagine della vita di tanti uomini e di tante donne che si sono mescolate a quelle della mia.
Avv. Gabriele Bordoni
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