COERENZA E SCELTE IMPRESCINDIBILI (contenuto: la rinunzia al mandato di Gilberto Cavallini)
È stato autorevolmente affermato che «la figura del difensore nel processo penale muove
dall’esigenza – esigenza di civiltà ancor prima che di efficienza di un sistema giuridico – di vedere
assicurato il contraddittorio sotto ogni profilo
Inserendosi «nello svolgimento del processo con carattere di essenzialità al punto che la sua presenza risulta intimamente connessa con il regolare esercizio del potere giurisdizionale, e la sua attività si profila come espressione di funzione pubblica», la fisiologia del difensore «affonda le sue radici e la stessa sua ragion d’essere nella dialettica processuale, nello stesso contraddittorio»
Ed è ormai condivisa la tesi secondo la quale la difesa, oltre a integrare un diritto della parte privata,
integri altresì una condizione di regolarità del processo. Da qui la suggestione che evoca una doppia
anima della difesa tecnica quale elemento irrinunciabile del rapporto processuale penale: da un lato,
il suo essere diritto primario di rango costituzionale, proclamato inviolabile in ogni stato e grado del
processo dall’art. 24 Cost., e, dall’altro, il suo essere funzione di garanzia della correttezza
dell’accertamento. Che la difesa sia anzitutto «funzione dialetticamente contrapposta all’accusa»
esercitata dall’imputato e dal suo difensore di fronte a un giudice imparziale è, come noto,
insegnamento della più attenta dottrina che afferma come essa trovi la sua più alta affermazione nel
metodo dialettico, quindi, nel contraddittorio. Il modello accusatorio diviene, quindi, il terreno fertile
nel quale possono coesistere entrambi gli aspetti anzidetti che finiscono per costituire il fondamento
della difesa penale intesa appunto come funzione, attività.
Il modello accusatorio garantito dall’art. 111 Cost. è per ogni grado di merito del processo ed al suo
interno deve essere riaffermato il valore assoluto e imprescindibile del diritto all’assistenza tecnica
che non si riduca all’adempimento di una mera formalità in quanto rappresenta uno strumento per
inverare i principi del giusto processo e, in particolare, per rendere effettivo il contraddittorio e
garantire la parità fra le parti anche nella prospettiva della tutela dell’interesse della collettività al
corretto svolgimento del processo.
Rimarcati questi concetti, tutti tratti dalla Giurisprudenza recente in tema, merita qualche
approfondimento la scelta di questo Difensore di rinunziare al mandato di Gilberto Cavallini, dopo
averla pienamente condivisa con l’assistito e con il codifensore, pure rinunziante.
Il processo di primo grado si è concluso con l’ergastolo per l’imputato; senza acquisizioni nuove
rispetto alle pregresse vicende processuali che lo avevano visto imputato soltanto di banda armata ed archiviato per il delitto di strage, hanno in ultimo pesato su Cavallini i giudicati di condanna a carico
di Mambro e Fioravanti oltre che di Ciavardini.
Questi, appartenenti al gruppo di fuoco dei NAR, erano con Cavallini la prima mattina del 2 agosto
a Villorba di Treviso; dandosi per indiscutibile la loro presenza a Bologna poche ore dopo, mancando
un alibi per l’attuale imputato, la considerazione conseguente che questi fosse con loro avendo parte
attiva nell’eccidio era la soluzione più banalmente ovvia.
Così si legge in sentenza nella pagina decisiva (540): “La difesa di Gilberto Cavallini, in questo
giudizio, ha sostenuto la c.d. pista palestinese, la quale, ove avesse inoculato anche solo un semplice
dubbio sulle ricostruzioni già consacrate nei giudicati, avrebbe condotto non soltanto all’assoluzione
dell’imputato, ma avrebbe anche aperto la strada al giudizio di revisione a favore degli
imputati già condannati (e poi a richieste di risarcimento per ingiusta detenzione e di restituzione di
importi già corrisposti, se vi sono stati). Si è trattato di una scelta difensiva obbligata, perché, come
ha lucidamente convenuto lo stesso difensore di Cavallini, avv. Bordoni in sede di discussione con
parole essenziali ma esaustive, quando ha detto che, per il semplice fatto di avere dato ospitalità a
Fioravanti, Mambro e Ciavardini, il “contributo causale” di Cavallini è “indefettibile… anche perché
vi è stata sostanziale ammissione da parte di Cavallini e anche degli altri imputati”. E infatti, il solo
fatto di avere dato alloggio, e quindi fornito una base, a Mambro e Fioravanti che dovevano
trasportare la bomba a Bologna, ‘inserisce a pieno titolo nella segmentazione dell’iter causale che
condusse alla strage, Sul piano tecnico-giuridico, si tratta di una condotta idonea, quale contributo causale, a fondare la responsabilità di Cavallini per il delitto di strage, quanto meno quello previsto
dall’art, 422 CP”.
Una scelta obbligata, lo riconosceva la Corte d’Assise, quella di difendersi cercando una diversa
verità, non necessariamente limitata al cd. pista palestinese, ma più in generale tendente ad
approfondire, dopo oltre 40 anni dai fatti, alcuni misteri che potevano arricchire la conoscenza di tutti
intorno a quell’ignobile massacro di innocenti.
E così in appello lo sforzo si è concentrato -oltre che su alcuni aspetti schiettamente processuali,
legati essenzialmente alla dedotta violazione del ne bis in idem, nell’arricchimento del quadro
probatorio mediante richieste istruttorie.
Fra le altre, il completamento della perizia comparativa sul DNA già attribuito a Maria Fresu. Ad
esordio del processo, dopo averlo fatto due volte in sede predibattimentale, gli scriventi chiedevano
che venissero prelevati campioni di DNA dai reperti dei resti già erroneamente attribuiti a Maria
Fresu, di cui alla perizia tecnico-biologica in atti, disposta dalla Corte d’Assise nel dibattimento di
primo grado del presente procedimento, finalizzati all’estrapolazione di dati genetici utili per la
valutazione dell’origine ancestrale e la predizione del fenotipo (caratteristiche visibili del soggetto
quali colore degli occhi, capello e pelle) per le ragioni specifiche chiaramente e diffusamente esposte
e nell’ottica difensiva legittima come ritenuto fra le tante da Cass. 6598/22 e la Corte rigettava questa
istanza anche ad esordio dell’appello, ritenendola non rilevante negando anche autonoma attivazione
da parte della difesa, attraverso il CTP della difesa Prof. Emiliano Giardina.
Ancora, si chiedeva che la Corte, portando a compimento l’iter di quell’accertamento che la Corte di
primo grado ha condiviso, ma poi non inteso coltivare -secondo quella logica incomprensibile esposta
alle pagg. da 1839 a 1864 della sentenza sino alle ulteriori e definitive risultanze -come invece appare
imprescrindibile- disponesse la comparazione fra il DNA tratto dai resti mortali rinvenuti all’interno
della basa di Maria Fresu e quello delle altre vittime femminili censite nel processo, precisamente nel
limiti indicati con lucidità dal Prof. Giovanni Pierucci (pagg. 68 e 69 trascrizioni verbale udienza
30/10/2019):
CONSULENTE PIERUCCI: Cioè io parlo di compatibilità morfologica, in base alle fattezze del
cadavere e all’aspetto del lembo che è stato descritto molto accuratamente dal Professor
Pappalardo. Dunque, volevo dire una cosa, che, se non mi sbaglio, in un volume, anzi sicuramente
in un volume di un notevolissimo trattato italiano di Medicina Legale, ecco, c’è una foto che è tratta
dai resti di un disastro di massa e dovrebbe essere quello della Fresu. Comunque la descrizione,
ecco, io ho anche assistito all’esumazione il 25 marzo, e i resti erano notevolmente e ulteriormente
deteriorati, però grossomodo c’era una corrispondenza morfologica, cioè di forma, con la descrizione di Pappalardo, quindi, ecco, e anche con quella foto, ma quella lasciamola fare. E quindi
c’è, direi che su questo punto, se la morfologia ha un significato, si potrebbe essere sicuri. D’altra
parte la catena di conservazione la si può pretendere dal momento dell’acquisizione della consegna
della perizia direi e non in precedenza. Ora la perizia è stata consegnata il 3 dicembre del 1980,
ecco, quindi diversi mesi dopo il fatto, quindi fino a questo punto i reperti esaminati dal Professor
Pappalardo c’erano e sono stati, ecco, così, in via congetturale, dove sono finiti, sono finiti ai parenti
e sono finiti diciamo agli agenti che hanno fatto la inumazione, che si sono presi cura. Ecco, quindi
la parte principale della identificazione riguardava esclusivamente il lembo facciale. Quindi il lembo
facciale, una volta attribuito alla Fresu Maria, è chiaro che sarà stato, ecco, sempre in via
congetturale ma logica direi, è stata inumata, è stata tumulata nella bara pertinente, cioè che reca il
nome della Maria Fresu nel loculo, che reca il nome della Maria Fresu vicino a quello della figlia,
ecco.
DIFESA, AVV. PELLEGRINI – Della figlia. Senta, Professore, era possibile all’epoca, ovviamente
oggi no, ma all’epoca era possibile determinare approssimativamente l’età di quel lembo facciale?
Cioè se quel lembo facciale e quello scalpo, appartenesse a una donna giovane, a una donna
anziana? Era possibile farlo? CONSULENTE PIERUCCI – Ma direi di sì, molto orientativamente, ecco. La presenza o meno di
rughe, la presenza o meno o anche il colore dei capelli, la parte le sovrapposizioni diciamo il colorito
delle sopracciglia, ecco, questo. Anche l’aspetto dei denti.
DIFESA, AVV. PELLEGRINI – Senta, professore, le ho mandato, nei giorni scorsi, appunto quei
verbali di ricognizione che stamattina ho allegato, le ripeto la domanda che le ho fatto prima:
secondo lei, dalla descrizione contenuta in quei verbali, si può ricavare che il lembo facciale
appartenesse a una di quelle vittime oppure no?
CONSULENTE PIERUCCI – Ecco, di queste sette di cui mi ha mandato l’elenco e poi ce n’è anche
un altro elenco che mi ha mandato l’Avvocato Bordoni, dunque, direi, leggo solamente i due possibili,
i due possibili, nella maggior parte dei casi no, perché? Perché quella parte pertinente al lembo si
ritrova descritta sul cadavere.
DIFESA, AVV. PELLEGRINI – Sì.
CONSULENTE PIERUCCI – Quindi, ecco, quella. Dunque, le uniche due possibili, diciamo
teoricamente possibili in base ai dati morfologici sono Sala Vincenzina, di cui era perito il Professor
Savartani, e Frigeri Enrica che fu esaminata da Fallani. Per quanto riguarda le foto del Professor
Ricci, ecco, siccome erano…
DIFESA, AVV. PELLEGRINI – Aspetti, aspetti, non accavalliamo gli argomenti, ne parliamo dopo.
CONSULENTE PIERUCCI – No, no, ma è importante. Questo per dire che il Professor Ricci avrà
fatto le… Ha chiesto il rimborso spese per le foto che aveva fatto lui sui suoi cadaveri, non su quelli
fatti dagli altri.
DIFESA, AVV. PELLEGRINI – E sì, però sono molte le foto. Sono 139, va beh, comunque. Comunque
sarebbe il caso di vederle, sarebbe opportuno vederle.
CONSULENTE PIERUCCI – Erano purtroppo molti anche…
PARTE CIVILE, AVV. SPERANZONI – Ma è una precisazione importante, che ha fatto il consulente
della Difesa.
DIFESA, AVV. PELLEGRINI – Sì, sì, no, no, ma perbacco.
PARTE CIVILE, AVV. SPERANZONI – Per le sue foto.
DIFESA, AVV. PELLEGRINI – Certo, sì, ma certamente. Ma infatti non sto mica dicendo di no eh,
sto dicendo che le foto erano tante, sarebbe utile, per tutti noi, e doveroso vederle. Allora, lei sa che
di queste due signore citate, Sala e Frigerio, il gruppo sanguigno citato dal Professor Pappalardo, è un gruppo sanguigno diverso da quello del lembo facciale e che oltretutto si trattava di due signore
diciamo un po’ agée, mi perdoneranno le signore presenti.
CONSULENTE PIERUCCI – Sì.
DIFESA, AVV. PELLEGRINI – Perché erano ultracinquantenni. Lo sa questo? È corretto questo?
CONSULENTE PIERUCCI – Sì, va bene.
DIFESA, AVV. PELLEGRINI – Lei ha dato un giudizio, un morfologico, soltanto basandosi sulla
morfologia, ma ci sono anche questi dati in aggiunta. Va bene. Io non ho altre domande, Presidente.
Quindi, il Giudice di appello, apparendo indispensabile ai fini del giudicare, avrebbe dovuto disporre
nei modi più congrui la comparazione fra il DNA di queste ultime e quello dei resti ritrovati nella
bara di Maria Fresu.
Ancora, si chiedeva l’audizione Carlos Ilich Ramírez Sánchez,
In estrema sintesi e per quello che è dato ricavare dagli atti (prescindendo dalle interviste rese a
qualche giornalista nel tempo), Carlos assume che la strage di Bologna non sia stata opera dei
“giovani neofascisti”, bensì risponda ad una necessità dei servizi occidentali filoamericani di
“scaricare” sui terroristi sovversivi di matrice palestinese quell’attentato, facendo sì che vi rimanesse
coinvolto Thomas Kramm, uomo vicino a Carlos e notoriamente legato a quell’ambiente, così che la
sua morte valesse a “firmare” la strage ponendo il presupposto per sciogliere il c.d. lodo Moro
confermato nella sua esistenza anche dal Generale Mario Mori, in occasione della deposizione resa
avanti la Corte lo scorso 3 ottobre- che in quegli anni consentiva di fatto ampia libertà di manovra sul
territorio italiano ai filo-palestinesi, come sostenuto anche dalla commissione d’inchiesta Mitrokhin. Peraltro, le sentenze della Cassazione civile sulla strage di Ustica, depositate da questa difesa con
recente nota, recano interesse a quella ipotesi, laddove -riconoscendo di fatto il coinvolgimento delle
forze USA nell’abbattimento con un missile dell’aereo dell’Itavia e condannando l’attività di
depistaggio conseguente intervenuta ad opera dei Servizi italiani per celare l’accaduto- hanno
delineato processualmente e con la valenza descritta dagli artt. 283 e 283 bis c.p.p. un quadro di
devianza abbastanza assimilabile a quello che il terrorista venezuelano descrive nel proprio racconto.
Dunque, una strage a Bologna da ascrivere all’OLP, per sciogliere il lodo Moro e, nel contempo,
distogliere l’attenzione su quanto era occorso appena un mese e mezzo prima nel cielo di Ustica,
magari finendo per attribuire alla stessa matrice anche quell’eccidio che, come quello del 2 agosto,
aveva coinvolto ed ucciso decine di persone comuni.
Questa è una prospettazione logica; come logica è quella che vede nella strage di Bologna il frutto
della ritorsione dei palestinesi per l’intervenuta rottura del lodo Modo in esito all’arresto dei terroristi
vicini alla OLP ad Ortona.
Ma ora è tempo di passare dalle ipotesi alla loro verificazione probatoria e la difesa di Cavallini ritiene
che questo contesto sia l’ultimo nel quale ciò possa avvenire, pubblicamente e nel contraddittorio fra
le parti, così da non lasciare perplessità o dubbi in argomento nè alimentare polemiche o sterili
dietrologie.
Del resto, l’imputato in questo processo ha un interesse qualificato di ordine tecnico ed un pieno
diritto di difesa a veder dar sfogo ad una prova che, laddove raccolta, potrebbe comportarne lo sgravio
dall’accusa esiziale che gli viene rivolta; ed ecco perché si ritiene giusto e doveroso insistere per
l’audizione di Carlos, le cui modalità potranno essere varie immaginandosi, oltre all’ottenimento della
presenza in aula del predetto, anche il trasferimento della Corte a Parigi ovvero la videoconferenza,
ipotesi tutte da sondare nella loro esperibilità concreta ad opera della Corte, attraverso il Magistrato
di Collegamento per la Francia Dott. Pascal Gand e l’autorità diplomatica italiana, servendosi del
mezzo dell’Ordine europeo di indagine penale, in tale ottica essendosi già attiva questa difesa
coinvolgendo anche il difensore di Carlos, Avv. Sandro Clementi- nella certezza di raccogliere in
esito l’adesione della Corte e delle altre parti processuali, nell’intento comune di rendere praticabile
nella maniera più agevole quell’incombente.
Si tratta, peraltro, di una prospettiva più volte espressamente anch’essa invocata da questa difesa che
potrà offrire ulteriori elementi di verifica e di conforto a quelle che saranno le risposte di Carlos alle
domande che gli vorremmo porre e che, fra le altre, potrebbero essere le seguenti:
1. se sapeva dei limiti (spaziali, temporali e di contesto) entro i quali il c.d. “lodo Moro” doveva essere rispettato;
2. se aveva avuto contatti diretti od indiretti con Daniele Pifano e se ne conosceva l’appartenenza
politica;
3. se conosceva Giovanni Senzani;
4. se conosceva Rita Porena e, nel caso affermativo, quale veste le attribuiva;
5. da chi aveva saputo della presenza di Thomas Kram a Bologna il 2/8/1980 quando riferì
genericamente quel fatto in una intervista al Messaggero del 1° marzo 2000, ben prima di ogni
accertamento al riguardo e che la Commissione d’Inchiesta scoprisse trattarsi appunto del predetto
Kram;
6. se Thomas Kram operava con pseudonimi ed anche in relazione ad essi disponesse di documenti falsi
di copertura (nel caso, se fosse lui stesso a predisporli);
7. se Kram avesse una carta d’identità tedesca (n. G7008331, rilasciatagli a Bochum il 25 marzo 1975)
ed una patente auto (n. 20344, rilasciata in data 11.11.1970);
8. se conosce chi fossero i due soggetti che seguirono nel suo itinerario Kram da Chiasso a Roma e
quindi a Bologna ove giunse il 1° agosto 1980 e se fu lo stesso Kram a riferirglielo;
9. le ragioni della telefonata che ebbe a ricevere nella mattina del 2 agosto dalla stazione di Bologna, in
orario attiguo a quello dell’attentato;
10. se Kram cambiò il programma dei propri spostamenti dopo l’attentato alla stazione;
11. le ragioni per cui la sera del 5 agosto 1980 Kram tentò di entrare a Berlino Est, poche ore prima dell’arrivo in quella stessa città di Weinrich da Budapest;
12. se conosce Di Costanzo Vincenzo ed Amato Eufemia e, nel caso affermativo, se sa quali rapporti
potessero avere costoro con Kram;
13. se gli risulta che Abu Saleh Anzeh fosse in rapporti con il colonnello Stefano Giovannone e per quale
ragione;
14. se l’ordigno di Bologna era una miscela di tritolo e C4 ovvero avesse altre componenti e chi gli riferì
questo particolare;
15. se l’esplosivo del 2 agosto era in semplice transito e dove era diretto;
16. se detto esplosivo fosse reattivo ai soli inneschi o presentasse margini di detonazione fortuita,
precisando in entrambi i casi quali fattori avrebbero potuto scatenare la deflagrazione;
17. se il rapporto scritto che ricevette da Magdalena Cecilia Kop sulla strage fosse stato elaborato
solamente dalla stessa ovvero assieme ad altri, se questi fossero a Bologna il 2 agosto e perché si fece
carico la donna di redigerlo;
18. come glielo trasmise e da dove, oltre che in quale lingua;
19. perché la Organizzazione dei rivoluzionari internazionalisti cui Carlos aderiva aveva interesse a
scrivere una relazione sull’attentato di Bologna e se conosce ove ne sia rinvenibile una copia;
20. se Christa Fröhlich nel 1980 sapeva parlare italiano;
21. se conosce i nomi di infiltrati del Mossad all’interno dei movimenti rivoluzionari ed in particolare se
sa indicare chi fossero gli agenti ebreo-italiani del servizio segreto israeliano infiltrati nelle BR;
22. a quali persone si riferiva allorchè indicò nella Cia e nel Mossad gli organizzatori della strage di
Bologna;
23. quali appartenenti ai servizi segreti italiani e tedeschi sapevano del coinvolgimento del Mossad e
della Cia nella strage e come fa a saperlo, eventualmente da chi lo apprese;
24. se è in grado di riferire quali agenti americani o del Mossad fossero a conoscenza del trasporto di
esplosivo a Bologna e chi glielo riferì;
25. quali sarebbero state le finalità di questi servizi stranieri che li avrebbero determinati alla strage ed
in che senso Bologna sarebbe stata una «rappresaglia» contro la politica di tolleranza dei gruppi
terroristici palestinesi del Governo italiano e quale sarebbe stata l’occasione scatenante.
Si tratta soltanto di spunti, ripresi dal materiale sedimentatosi sull’argomento ovvero conseguenti
affermazioni pregresse dello stesso Carlos che possono valere come traccia, senza dubbio ora
passibile di essere arricchita da ulteriori elementi fra quelli che questa vasta indagine ha fatto
raccogliere nei tanti faldoni di cui si compone il fascicolo investigativo.
Del resto, l’interesse ad ascoltare Carlos era sorto già parecchi anni addietro quando ne era stata
prospettata l’audizione da parte di una delegazione della Commissione Stragi che l’avrebbe dovuta svolgere -così come da accordi, tempi e modi fissati con la rogatoria del 3 aprile 2000- nei giorni 16
e 17 ottobre dello stesso anno, presso una sala del Palazzo di Giustizia di Parigi.
Ma, allora, pochi giorni prima della partenza per la Francia, l’autorità d’oltralpe faceva sapere al
nostro ministero della Giustizia (Ufficio II rogatorie) che l’interrogatorio dell’uomo che aveva
scatenato il terrore in mezza Europa tra il 1973 e il 1983 non poteva più avere luogo.
Se tutto fosse andato a buon fine, comunque, l’audizione del detenuto sarebbe stata sottoposta a
rigidissime restrizioni: non sarebbe stato possibile effettuare un resoconto stenografico (il verbale
delle dichiarazioni sarebbe stato stilato soltanto dalle autorità francesi) e, sebbene fosse stata
autorizzata dal giudice delegato, la registrazione del colloquio avrebbe potuto avere luogo solo se
l’interessato fosse stato d’accordo.
Anche per queste restrizioni nei modi, Carlos accusò il giudice Bruguière di aver messo in moto una
sorta di complotto contro l’autorità parlamentare italiana e di aver voluto sabotare la rogatoria.
Non andò molto meglio al P.M. di Bologna in quell’aprile del 2009 perché -da quello che rileviamo
in atti- anche allora in realtà, Carlos si limitò a fare un discorso generale in riferimento alla strage di
Bologna, nel quale dichiarò in sintesi: “… è roba della Cia, i servizi segreti italiani e tedeschi lo
sanno bene..La bomba non l’hanno messa né i rivoluzionari né i fascisti… Voglio parlare davanti a
una Commissione parlamentare in Italia”, rifiutandosi di andare oltre per il contesto nel quale veniva sentito che non lo rendeva sereno (quegli atti, depositati allo stato in francese, dovranno essere tradotti
in lingua italiana ed in tal senso si impegna ad attivarsi questa difesa).
L’anno seguente, rivolgendosi allo scrivente tramite missiva, Carlos affermò di essere pronto a
parlare: “Voglio confermare tutte le mie dichiarazioni sull’argomento davanti a un tribunale italiano,
in Italia…”.
Da allora, questo difensore ha sollecitato tante volte quell’attivazione che non pareva nemmeno
troppo complessa, trattandosi di collaborazione transnazionale fra Paesi della UE ma ogni istanza in
tal senso formulata, sia all’Ufficio della Procura, sia al Magistrato di Collegamento francese, sia
infine al Ministero non ha dato frutto, risultando di fatto anche impossibile per lo scrivente accedere
al carcere di Poissy ove il predetto Carlos è detenuto; tanto che ci si risolse -seppure a malincuore,
perché non pareva che fosse compito della difesa privata- a contattare direttamente l’interessato ed
accedere al carcere francese per ascoltarlo -non conoscendo a quel tempo nemmeno il perimetro della
richiesta di assistenza giudiziaria che nel 2009 era stata richiesta dal P.M., né il contenuto completo
della deposizione di allora- e le poche circostanze che in quell’occasione il dichiarante potè riferire
sono quelle redatte a mano dallo scrivente e firmate da Carlos in atti.
Carlos, in quella occasione, non volle confrontarsi con i quesiti che chi scrive aveva già sottoposto al
P.M. e che potevano rappresentare, invece, un valido canale di approfondimento e di verifica per
ragioni evidenti, proprio perché si era trovato di fronte un avvocato e non un Magistrato italiano,
come questi giustamente invocava.
Ora, noi non sappiamo che cosa in concreto e di processualmente utile possa rivelare Carlos, né se le
sue parole trovino conforto negli atti di indagine sin qui compiuti ed in quelli dei quali si auspica la
desecretazione: ma non tentare di fargli chiarire meglio le cose pare assurdo -a fronte delle sue
perentorie affermazioni a discolpa dei terroristi neofascisti, della sua caratura criminale e del suo
ruolo centrale nello scacchiere terroristico internazionale di allora ed, infine, considerata la sua
mancanza di interesse ad esternare alcuni fatti di cui era a conoscenza (che condussero
all’incriminazione dei suoi sodali Kram e Froelich)- oltre che compressivo del diritto alla prova
diretta a discarico dell’imputato Gilberto Cavallini.
Quella prova alternativa che la stessa Corte d’Assise ritiene essere l’unica che poteva essere indotta
da questa difesa nell’intento di escludere la responsabilità di Cavallini: allora è paradossale assumere
l’irrilevanza di quella testimonianza (inclusa sin dall’esordio nella lista testimoniale) quando la stessa
integrava il tipico ed incoercibile diritto istruttorio, garantito alla parte dall’art. 190 c.p.p. che è stato quindi violato apertamente nella sua essenza di usbergo alla difesa.
Così come risulta paradossale che le espressioni di quell’uomo, certamente protagonista di primo
piano del terrorismo internazionale -come confermano i documenti in atti- siano affidate alla stampa,
a riferimenti indiretti oppure a verbali interrotti per ragioni di ordine ambientale ovvero a
dichiarazioni rese, con le difficoltà oggettive e gli imbarazzi intuitivi, ad un difensore.
Ed ecco che al rispetto assoluto per il dolore di chi ha lasciato quel giorno i propri cari sotto le macerie
della stazione di Bologna si unisce quello di chi sta subendo l’infamia di essere indicato come autore
di quel massacro di popolo.
Del resto, la ricerca della verità può e, talvolta, deve andare anche oltre le sentenze; e, nella ricerca
della verità sull’eccidio di Bologna, è sacrosanto non trascurare alcuna ipotesi e fare tutto quanto è
possibile per conoscere di più, prima che lo scorrere del tempo cancelli ogni traccia ed anche coloro
che sanno.
La Corte di primo grado si è dedicata largamente alla ricostruzione storica, calpestando anche
giudicati e valutazioni espresse dagli Storici su diversi fatti, riconducendoli alla logica che perseguiva
ai fini di inserire la strage del due agosto in un determinato contesto e di attribuirla anche
“concettualmente e storicamente” all’imputato.
Questa operazione non appare affatto corretta, ma ancor meno lo appare la scelta di escludere da
questo contesto ricostruttivo -basato su un concetto di fatto notorio assai originale e davvero curioso
rispetto al processo penale- ogni e qualunque indizione difensiva che potesse ostacolare la monocorde
rilettura storica proposta dalla Corte.
Una rilettura che non ha considerato un elemento di fatto indubbiamente suggestivo e sul quale non era possibile rimanere imperturbabili: ossia che nell’estate del 1980 si concentrarono le due stragi di
più vaste dimensioni che hanno insanguinato il nostro Paese: infatti, le 81 vittime del DC 9 abbattuto
da un missile sui cieli di Ustica si unirono alle 85 conseguite all’esplosione dell’ordigno alla stazione
di Bologna.
Allora, se si voleva proprio riscrivere la storia giudiziaria e non solo, quel tema doveva essere recepito
e sviluppato, con ampia disponibilità di manovra istruttoria, specialmente per l’imputato, già che
doveva difendersi da un’accusa per un delitto avvenuto 40 anni prima; ricordando anche che i modi
di leggere i documenti intorno ad un fatto dipendano dalle diverse strategie operative applicate, dal
punto di vista del lettore o dei lettori, da quello di chi ha prodotto quei determinati documenti, dalle
circostanze che li hanno prodotti, da quelle che li hanno portati nuovamente alla luce, dalle aspettative
che si hanno, dagli obiettivi prefissati, dalla curiosità, dai rapporti di forza fra chi li analizza e da
innumerevoli altri fattori.
Questo perché i documenti si prestano ad una molteplicità di approcci possibili, aprendo una verità
che è sempre una verità di relazione (ma che per il fatto d’esser di relazione non è per questo meno
vera, come certe espressioni del relativismo culturale hanno cercato di sostenere).
Per secoli si è pensato che la verità fosse una “cosa” indipendente, che si poteva scoprire o rivelare,
ma che rimaneva in sé immutabile e intangibile; ma nel nostro secolo le cose sono cambiate e i criteri
tradizionali di verità han cominciato a esser messi in discussione per aprirsi a una visione più
“debole”, più “relazionale” della verità; si sostiene anche che la verità storica sia irraggiungibile; le
altre sono quelle che si raggiungono lungo tutto lo svolgimento del processo e, di conseguenza, verità
a metà o verità instabili.
In un’ottica costituzionale, quindi, alla verità si giunge tramite il processo penale, vale a dire quella
serie di attività compiute da giudici indipendenti nelle forme previste dalla legge e dirette alla
formulazione, in pubblico contraddittorio tra accusa e difesa, di un giudizio consistente nella
verificazione o falsificazione empirica di un’ipotesi accusatoria e nella conseguente condanna o
assoluzione di un imputato.
Infine, si chiedeva accesso completo alle carte un tempo secretate presso i Servizi Segreti, avanzando
istanza reiteratamente perché la Corte formalizzasse richiesta alla Presidenza del Consiglio dei
Ministri tesa all’acquisizione di tutti i documenti già coperti dal segreto di Stato, non essendo lo stesso
qui opponibile ex lege posto che, a fronte dell’art. 204 c.p.p. che esclude il delitto di strage fra i reati
passibili di secretazione, si pone comunque l’unico limite di cui all’art. 66 disp. att. dello stesso codice in base al quale il Presidente del Consiglio potrebbe confermare il segreto soltanto laddove ritenesse
e motivasse che quanto coperto da segreto “non concerne il reato per cui si procede”.
Come già evidenziato, questo argomento è stato oggetto di perentorie affermazioni da parte
dell’attuale Governo, in occasione dell’ultima celebrazione dell’eccidio, laddove i suoi rappresentanti
(Ministro della Giustizia Bonafede), andando oltre la cd. direttiva Renzi, hanno affermato “per quanto
riguarda l’azione del Governo la presidenza del Consiglio ha riattivato il comitato interministeriale
che sta lavorando sui documenti per dare piena esecuzione alla desecretazione dei documenti e in
generale per renderli nella massima fruibilità e accessibilità, com’è giusto che sia”.
Anche alla luce del resoconto in tema versato in atti dai PPMM, con una nota riepilogativa dalla quale
si ricava che ad oggi non è stata ancora acquisita tutta la documentazione secretata sulla Strage del
2/8/1980, si rimarca l’importanza di quella acquisizione già invocata da questa difesa anche
all’esordio del processo (mediante anche induzione di prove testimoniali, non ritenute utili dalla Corte
d’Assise) e verso la quale si è opposta curiosamente la difesa delle Parti Civili (sebbene molto attente
al profilo legato ai cd. Servizi Segreti deviati ed al loro preteso coinvolgimento nella strage, ma non
interessata ad andarci a fondo davvero), nella neutralità al riguardo, invece, manifestata dell’Ufficio
di Procura.
Nel contempo, poteva essere acquisito anche l’intero fascicolo già secretato -ma ora disponibile per
il decorso dei trent’anni di legge- avente ad oggetto la scomparsa ed uccisione dei giornalisti Italo
Toni e Graziella De Palo.La difesa di Cavallini è certa che non potrà emergere nulla da quelle carte che riguardi in senso
accusatorio il proprio assistito ed anzi è certa che ne emergano elementi di grande utilità alla sua
difesa; nel contempo è -al pari di ogni cittadino libero e che ancora crede nella sovranità del Popolo
e nei valori della Civiltà- interessata a fare definitiva luce su quei carteggi sino ad ora mai resi
ostensibili nella loro pienezza come, invece, è imprescindibile, essendo oltretutto passati quasi 40
anni dal barbaro eccidio.
Questo processo è l’ultima occasione in cui un Giudice può promuovere istanza al Governo del Paese
perché davvero ed in completezza quei segreti vengano rivelati; sicchè parrebbe davvero impensabile
che non vi si dia corso, dal momento che la ricerca della verità sull’eccidio di Bologna ed il diritto
pieno di difesa dell’imputato impongono di fare tutto quanto è possibile per conoscere.
Di contro, è davvero impensabile e forse ontologicamente impossibile definire quanto si ritiene che
possa emergere da atti un tempo segreti ed ora comunque riservati e, di fatto, non accessibili; sicchè
la critica mossa dalla Corte verso la difesa al riguardo appare davvero bizzarra.
Certamente, verificare eventuali connessioni fra la strage di Bologna e quella di Ustica, verificare
quanto raccolto in relazione al rapimento ed alla morte dei giornalisti Toni e De Palo oltre che intorno
al ruolo che rispetto a quei massacri di innocenti possano avere avuto organismi di varia natura,
interna ed internazionale ed all’esistenza di eventuali acquisizioni di prove non rese note alla A.G.
sono i temi di ordine generale che questa difesa può immaginare che trovino risposte in quelle carte.
Anche verificare che cosa si trovi in quel carteggio intorno alla figura di Carlo Digilio ovvero sul
possibile decesso dell’attentatore all’atto della deflagrazione sarebbero temi di sicuro interesse, anche
alla luce della Perizia esplosivistica ancora in corso e dei quesiti tutti ai quali è chiamata a rispondere.
Ulteriormente, risulterebbe rilevante conoscere il contenuto dei documenti raccolti dall’ultima
Commissione Moro, presieduta dall’On. Fioroni.
Certa, in ogni caso, è una circostanza: ancora dopo la modifica normativa del 2007, nel contesto di
un carteggio fra la Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’AG bolognese (vedasi il resoconto in
tema versato in atti dai PPMM con la nota dell’ottobre scorso, riprodotta nella memoria difensiva pregressa in tema), emerge con chiarezza che sino ad allora e, quindi, sino ad oggi, non è stata ancora
acquisita tutta la documentazione già segreta ed ora desecretata ed indicizzata sulla Strage del
2/8/1980 (come da resoconto accluso, tratto dal sito dell’Archivio di Stato), posto che espressamente
si afferma esserne stata rimessa a suo tempo “grande parte”, quindi non l’intero corpus.
La difesa di Cavallini è assolutamente convinta che da quelle carte possano trarsi elementi di decisiva
utilità alla difesa dell’imputato ed alla conoscenza dei fatti da parte della Magistratura ed, assieme ad
essa, del Popolo italiano nel cui nome la Corte emetterà Sentenza ad esito di questo processo.
Sull’occasione unica che questo momento processuale -legato anche alle parole di massima apertura
espresse, ma vanamente, dal Governo sul tema specifico, salvo poi negare l’accesso alla difesa (come
è stato documentato) e dilatare i tempi della secretazione rispetto agli atti che sarebbero divenuti
ostensibili ora- reca al Giudice di questo reato perché possa accedere a tutte quelle carte si è già detto;
quindi, si insiste perché la Corte si attivi nel senso indicato e nelle forme prospettate, ovvero in quelle
differenti che ritenesse più consone al fine di raggiungere quell’obbiettivo.
In quell’ottica, peraltro, riserva eventuale nomina di Consulente, laddove la Corte di secondo grado
optasse per la devoluzione dell’accesso a proprio Tecnico di fiducia.
Peraltro, questa difesa ha esplicitato nel dettaglio l’obbiettivo che si prefigge accedendo agli atti un
tempo segreti afferenti alla strage di Bologna del 2 agosto 1980, ora comunque riservati e, di fatto,
non accessibili; in particolare, rilevano ad avviso degli scriventi:
1) eventuali connessioni fra la strage di Bologna e quella di Ustica del giugno 1980;
2) il ruolo che rispetto a quei massacri di innocenti possano avere avuto organismi di varia natura, interna
ed internazionale;
3) l’esistenza di eventuali acquisizioni di prove al riguardo non rese note alla A.G.;
4) quanto raccolto in relazione al rapimento ed alla morte dei giornalisti Toni e De Palo;
5) quanto si trovi in quel carteggio intorno alla figura di Carlo Digilio;6) quanto si possa riferire al possibile decesso dell’attentatore all’atto della deflagrazione del 2 agosto 1980 (anche alla luce della Perizia esplosivistica e di quella genetica ancora in corso ed in considerazione dei quesiti tutti ai quali le stesse sono chiamate a rispondere); 7) il contenuto dei documenti raccolti dall’ultima Commissione Moro, presieduta dall’On. Fioroni ed, a questo proposito, assume rilevanza quanto affermato un paio di mesi addietro Intervenendo sulla dall’On. Gero Grassi, ex-parlamentare del Partito democratico, il quale fece parte di detta Commissione ed ebbe modo così di visionare le carte del c.d. “lodo” che porta il nome dell’ex-statista democristiano e che riguarderebbero i patti con le organizzazioni palestinesi per il trasporto di armi ed esplosivo nel nostro Paese negli anni ’70. Orbene, questa difesa deve allora ritornare su questo tema dirimente, non solo alla luce di questa insorgenza ma anche del fatto che, pure attivatasi direttamente presso il Capo del Governo dopo il rigetto della domanda rivolta alla Corte, ne ha ricevuto il diniego a quell’accesso -con buona pace delle rassicurazioni pubbliche che il Ministro della Giustizia aveva dato- rimandando il Governo espressamente alla richiesta della sola AG alla quale sarebbe pronto a dare riscontro; né miglior sorte ha ricevuto istanza successivamente rivolta all’Ufficio di Procura. Del resto, in questa linea che vedeva come necessaria l’intercessione della AG competente si poneva anche il parere del Consiglio di Stato n° 2226/2014 ricordato dalla Corte nella ricordata ordinanza del 6/2 scorso. La difesa di Cavallini ribadisce, allora, di essere assolutamente convinta che da quelle carte possano trarsi elementi di decisiva utilità alla difesa dell’imputato ed alla conoscenza dei fatti da parte della Magistratura ed, assieme ad essa, del Popolo italiano nel cui nome la Corte emetterà Sentenza ad esito di questo processo. Sull’occasione unica che questo momento processuale reca al Giudice di questo reato perché possa accedere a tutte quelle carte si è già detto sicchè, anche alla luce delle nuove emergenze processuali, seppure ancora da completare (perizia esplosivistica e genetica) oltre che delle rivelazioni di Gero Grassi e della comprovata disponibilità dell’Autorità politica preposta a concedere alla Corte, ma solo alla Corte, quell’acceso alle carte riservate, si insiste perché la Corte si attivi chiamando a deporre in questa sede Gero Grassi e liberandolo dal vincolo (come è in suo potere) perché riferisca sui temi indicati e, comunque, rivolgendo domanda diretta al Governo nel senso proposto da questa difesa e rimasto deluso, ovvero assumendo al riguardo le iniziative che ritenesse più consone al fine di raggiungere quell’obbiettivo. D’altra parte, in certi momenti si può e si deve misurare il grado di effettiva unione dei Paesi d’Europa mentre non è possibile immaginare che sussistano ostacoli formali di fronte all’esigenza di verità su
fatti così gravi e terribili, nemmeno dopo quasi quarant’anni, quando sappiamo che trent’anni ora
rappresenta la durata massima del segreto di Stato, alla luce della legge riformatrice del 2007.
In proposito, frattanto, si potrebbe dare anche corso finalmente ed in via formale all’acquisizione di
tutti i documenti coperti sino ad ora dal segreto di Stato, non essendo lo stesso qui opponibile ex lege
posto che, a fronte dell’art. 204 c.p.p., si pone l’unico limite di cui all’’art. 66 disp. att. dello stesso
codice in base al quale il Presidente del Consiglio potrebbe confermare il segreto soltanto laddove
ritenga che quanto coperto da segreto “non concerne il reato per cui si procede”; l’argomento,
peraltro. è stato oggetto di perentorie affermazioni da parte del Governo, in occasione della
celebrazione appena passata dell’eccidio, laddove i suoi rappresentanti, andando oltre la cd. direttiva
Renzi, hanno affermato “per quanto riguarda l’azione del Governo la presidenza del Consiglio ha
riattivato il comitato interministeriale che sta lavorando sui documenti per dare piena esecuzione
alla desecretazione dei documenti e in generale per renderli nella massima fruibilità e accessibilità,
com’è giusto che sia”.
Sempre in quell’ottica, si era richiesto di acquisire i certificati Aise ed Aisi risalenti al 2021, raccolti
in connessa indagine dalla locale Procura della Repubblica che ne aveva concesso copia alla difesa
di Cavallini, attestando quelle carte in maniera espressa l’assenza di rapporti fra l’imputato ed i servizi ridetti nel corso di tutti gli anni di piombo e sino al suo arresto.
Seguivano anche altre istanze complementari, documentali e testimoniali.
La Corte d’Assise d’Appello, tuttavia, ha rigettato ogni domanda all’esordio del processo di secondo
grado, con particolare fermezza quelle principali sopra ricordate.
Pur nel rispetto di quella decisione, il rispetto che si deve anche alla nostra funzione di difesa rendeva
impensabile la permanenza nel processo, essendo stata interdetta quella che la stessa Corte di primo
grado indicava come l’unica strada che la difesa poteva percorrere, una strada obbligata, appunto: per
chi quella strada aveva indicato ed illustrato nella sua piena logica, persino esuberante rispetto alla
semplice logica difensiva a favore di Cavallini e più generalmente rivolta alla ricerca della piena
verità sula strage, la rinunzia al mandato era l’unica scelta possibile, per coerenza.
Una volta che l’avvocato si è messo la toga si trasfigura, egli diventa il mediatore di un conflitto
sociale sorto da una offesa alle leggi stabilite dalla collettività per mano di un singolo individuo
che, per le più svariate ragioni, ha deciso, più o meno scientemente di sottrarvisi. Indossando la
toga il difensore veste i simboli della sua funzione e trasmette il messaggio che in quel momento
egli è altro anche da sé e, soprattutto, altro dai soggetti in nome e per conto dei quali si
amministra la Giustizia.
Carnelutti insegnava che la Toga è al contempo “divisa” e “uniforme”: divisa perché, appunto,
divide e distingue l’avvocato dal volgo; uniforme, perché ne indica l’appartenenza al ceto
forense quale parte della medesima cultura condivisa (entro certi limiti) da Giudici, Pubblici Ministeri e altri compartecipi.
Questa divisione nell’uniformità rende in qualche modo possibile e lecita quell’aggressività che
compenetra tutto il tessuto processuale ed ecco, quindi, che la violenza ritualizzata diventa cosa
praticabile da avvocati e pubblici ministeri che nella loro sfida useranno la toga quale schermo
che devierà ogni strale verso la funzione ricoperta, lasciando intatta la persona che quell’abito
ricopre e nasconde.
Quando indossiamo questo manto nero non dobbiamo dimenticare, in conclusione, che
indossiamo un vestito vecchio di duemila anni, avanti al quale anche le armi si fermano per
lasciare il posto alla civiltà del diritto e della parola.
Io credo di essermelo ricordato, levandomi la toga dalle spalle quando ho capito che non potevo
fare altrimenti, lasciandomi guidare proprio dal suo peso perchè, come scrisse Paolo Camassa
nell’anno in cui io nacqui, la nostra toga “è nera come un’ombra che ricopre un’anima. E’ nera come
un manto di dolori e di piaghe. E’ nera come la notte che nasconde gli smarrimenti. Basta indossarla,
per raccogliere il peso di tutti i dolenti, di tutti i colpevoli, di tutti i derelitti. E’ un manto che va
portato come corona di spine”.
Ma soltanto finchè farlo ha un senso compiuto.
Avv. Gabriele Bordoni
STUDIO LEGALE BORDONI – Tutti i diritti riservati