OSTRACISMO VIRALE (contenuto: procedura di vaccinazione, libertà personale, green pass rafforzato)
Da oggi e per 45 giorni dovrò stare lontano dalle Udienze, come altri Colleghi, in ragione delle restrizioni imposte per il Covid 19, non essendo vaccinato, ma non avendo ancora ottenuto l’esenzione ed avendo da tempo superato i cinquant’anni.
Al riguardo, ritengo che il D.L. n. 1 del 7 gennaio 2022 -inibendo l’accesso agli Uffici Giudiziari a chi, ultracinquantenne avvocato, non abbia effettuato la procedura di vaccinazione, ovvero non possa dimostrare di esserne esentato- non trovi alcuna ragione giuridica legittimante, alla luce di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 5/2018 laddove è stato riaffermato il bilanciamento fra il diritto alla salute e quelli della libertà personale e di autodeterminazione del soggetto.
Quei principi ritengo che sarebbero rispettati laddove -come sono pronto a fare ed ho fatto volentieri dall’8 gennaio scorso e sino ad oggi- potessi esporre un tampone negativo, efficace per la data delle rispettive udienze, essendo tale strumento molto più affidabile circa lo stato di salute del suo portatore rispetto al green pass rafforzato, atteso che non è in discussione che anche i soggetti vaccinati con tre dosi possano essere portatori inconsapevoli del virus e contagiare gli altri.
Ma quella opzione, oltremodo ragionevole ed equilibrata -nel rispetto della salute pubblica, ma anche dei diritti costituzionali al lavoro ed alla difesa- non è consentita, posto che la disciplina precisa che l’assenza del difensore conseguente al mancato possesso o alla mancata esibizione della certificazione verde non costituisce legittimo Impedimento alla comparizione in udienza e che per il Ministero, l’art. 3 comma 1 lett. b) del D.l. n. 1/2022 (modificando l’art. 9 sexies D.l. 52/2021), menziona “i difensori”, secondo “un’accezione spiccatamente processualistica della professione legale che, in realtà può anche totalmente esulare dall’espletamento in senso stretto del mandato difensivo”; sicchè quel documento è necessario, peraltro, non solo per l’udienza ma anche per l’afflusso legato alle altre esigenze connesse con l’espletamento della professione, come ad esempio gli ingressi in cancelleria o negli uffici di Polizia, tanto che i controlli sul green pass, si legge nella nota redatta lo scorso 13 gennaio, dovranno procedere solo sulla base della qualifica professionale senza entrare in merito alle motivazioni di accesso al Tribunale.
Dunque, il Green Pass rafforzato sarà richiesto agli ultracinquantenni per l’accesso ai luoghi di lavoro e per altri servizi, ma resta gravato da dubbi il fatto che gli stessi soggetti, se avvocati, debbano essere “lasciati fuori” dai Palazzi di Giustizia anche se in possesso di regolare Green Pass base (in disparte venendo loro comminata la sanzione amministrativa prevista dalla normativa); anche sul punto sarebbe stato opportuno un intervento chiarificatore del Governo, ad oggi mancato.
Intanto, è stata rigettata dal Tar del Lazio l’istanza cautelare promossa da alcuni avvocati ai fini della sospensione dell’efficacia della ridetta circolare del ministero della Giustizia del 13 gennaio 2022, che ha istituzionalizzato l’obbligo del Green Pass rafforzato per l’accesso degli avvocati sopra i 50 anni di etànei Tribunali a partire dal 15 febbraio 2022.
Il Tribunale amministrativo regionale, al momento e nelle more della celebrazione della camera di consiglio, ha ritenuto non sussistenti le condizioni per disporre l’accoglimento dell’istanza di misure cautelari monocratiche proposta dai ricorrenti e, quindi, per sospendere l’obbligo di certificazione verde Covid rafforzata, ottenibile a seguito di vaccinazione o guarigione per la trattazione collegiale della causa, è stata fissata la camera di consiglio del 23 febbraio 2022.
Nelle more e nel caso denegato di rigetto dell’istanza, credo allora che al riguardo si debba stimolare ogni Giudice, avanti al quale non ci si possa presentare in ragione di questo vincolo, acchè voglia vagliare la legittimità costituzionale di quell’impedimento forzato all’esercizio del diritto di difesa, in armonia con l’affermazione contenuta nella sent. n. 42 del 2017 della Consulta, seguita, in senso conforme, dalle sentt. n. 53, 69, 180, 194, 208, 213, 218, 254 del 2017, nn. 15 e 40 del 2018, e peraltro preceduta dalla sent. n. 262 del 2015 ove si legge che «ai fini dell’ammissibilità della questione, è sufficiente che il giudice a quo esplori la possibilità di un’interpretazione conforme alla Carta fondamentale e, come avviene nel caso di specie, la escluda consapevolmente».
Così che, laddove quell’obbligo ed il conseguente divieto di accesso all’Aula di Udienza venissero considerati confliggenti con l’art. 24 della Carta fondamentale -rivelandosi in concreto tema rilevante, perchè ostativo all’esercizio del diritto alla difesa tecnica per l’imputato attraverso il proprio difensore di fiducia- ma, nel contempo, passibili di interpretazione correttiva e costituzionalmente orientata attraverso il differimento dell’Udienza di trattazione a data successiva a quella del 31/3/2022, di prevista cessazione dello stato di emergenza, il Magistrato potrebbe pregiudizialmente rinviare congruamente la trattazione del singolo processo, così da consentire al difensore la partecipazione personale al dibattimento ed alla discussione.
Laddove questa soluzione dovesse essere esclusa, non resterebbe che sollevare la questione incidentale di costituzionalità, chiedendo ai Giudici di vagliare in via di predelibazione di ammissibilità se il diritto alla salute possa prevaricare quello al lavoro e se possa essere imposto un trattamento sanitario obbligatorio senza alternativa di scelta in quanto strumentale persino al diritto del lavoro, invocando anche il rispetto del monito sovranazionale di cui al Regolamento Europeo n. 2021/953 del 14.06.2021 laddove afferma che “è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti Covid -19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate o hanno scelto di non essere vaccinate”.
Da un punto di vista normativo interno, invece, sarebbe da analizzare il diritto alla salute che costituzionalmente ritroviamo all’art. 32 della Costituzione; la norma è molto chiara nel suo costrutto, infatti, ella specificatamente asserisce che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”; il diritto alla salute non è quindi un diritto che mira all’individuo soltanto ma anche alla collettività e questo secondo profilo può giustificare trattamenti sanitari obbligatori, come l’obbligatorietà dei vaccini ma nei casi appuratamene vagliati e strettamente previsti dalla Legge.
Intanto, questione non trascurabile, è quella di definire se il secondo comma dell’art. 32 realizzi un’ipotesi di riserva materiale o formale. Come anticipato la norma recita: “[…] Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge; nel caso di specie, si trattasse di riserva di legge formale, nella materia potrebbe intervenire solo la legge ordinaria del parlamento, mentre non possono farlo atti aventi forza di legge, come decreti-legge o decreti legislativi, del governo.
Inoltre, si dovrebbe fare richiamo alla ricordata decisione della Corte costituzionale n. 5/2018, nella quale si enunciavano una serie di principi che disciplinano il bilanciamento dei diritti e delle posizioni in campo: diritto alla salute, libertà personale e autodeterminazione del soggetto; soprattutto, la Corte opera una valutazione tenendo conto della dimensione collettiva della salute, basata sul principio di solidarietà fra l’individuo e la collettività, ricavabile dall’articolo 2 Costituzione.
Peraltro, il decreto Lorenzin n. 73/2017, contestato in quella sede, prevedeva l’obbligo di vaccinazione riferito a vaccini scientificamente sperimentati da lungo tempo che avevano avuto un’autorizzazione al commercio di tipo standard; prassi questa saltata per i vaccini anti Covid in quanto erano stati autorizzati dall’Ema (Agenzia europea per i medicinali) con una procedura speciale detta “autorizzazione condizionata” al commercio, cioè con una procedura abbreviata e d’emergenza, in adesione alla normativa dell’Unione che prevede uno strumento normativo specifico per consentire la rapida messa a disposizione di medicinali, da utilizzare in situazioni di emergenza, poiché in tali situazioni la procedura di “immissione in commercio condizionata” (CMA, Conditional marketing authorisation), specificamente concepita al fine di consentire una autorizzazione il più rapidamente possibile, non appena siano disponibili dati sufficienti, pur fornendo un solido quadro per la sicurezza, le garanzie e i controlli post-autorizzazione.
Quindi, quegli equilibri dovrebbero essere ancora più avvertiti adesso come imprescindibili posto che allora la Consulta aveva stabilito che “la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 della Costituzione”: a) “se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale (cfr. sentenza 1990 n. 307); b) se vi sia “la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili”); c) se nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio sia prevista comunque la corresponsione di una “equa indennità” in favore del danneggiato (cfr. sentenza 307 cit. e v. ora legge n. 210/1992)”.
Per la Corte, dunque, i principi costituzionali subordinano la legittimità dell’obbligo vaccinale all’imprescindibilità di un “corretto bilanciamento tra la tutela della salute del singolo e la concorrente tutela della salute collettiva, entrambe costituzionalmente garantite”.
Ora, invece, il Consiglio di Stato afferma che “in fase emergenziale, di fronte al bisogno pressante, drammatico, indifferibile di tutelare la salute pubblica contro il dilagare del contagio, il principio di precauzione, che trova applicazione anche in ambito sanitario, opera in modo inverso rispetto all’ordinario e, per così dire, controintuitivo, perché richiede al decisore pubblico di consentire o, addirittura, imporre l’utilizzo di terapie che, pur sulla base di dati non completi (come è nella procedura di autorizzazione condizionata, che però ha seguito – va ribadito – tutte le quattro fasi della sperimentazione richieste dalla procedura di autorizzazione), assicurino più benefici che rischi, in quanto il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l’utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società, senza l’utilizzo di quel farmaco….L’obbligatorietà della vaccinazione è una questione più generale che, oltre ad implicare un delicato bilanciamento tra fondamentali valori, quello dell’autodeterminazione e quello della salute quale interesse della collettività anzitutto secondo una declinazione solidaristica, investe lo stesso rapporto tra la scienza e il diritto, come è ovvio che sia, e ancora più al fondo il rapporto tra la conoscenza – e, dunque, l’informazione e il suo contrario, la disinformazione – e la democrazia…. In un ordinamento democratico, come ha rilevato anche di recente la Corte costituzionale nella sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018 sulle vaccinazioni obbligatorie (re)introdotte dal d.l. n. 73 del 2017, rientra nella discrezionalità del legislatore prevedere la raccomandazione dei vaccini o l’obbligatorietà di questi e la scelta tra la tecnica della persuasione e, invece, quella dell’obbligo dipende dal grado di efficacia persuasiva con il quale il legislatore, sulla base delle acquisizioni scientifiche più avanzate ed attendibili, riesce a sensibilizzare i cittadini in ordine alla necessità di vaccinarsi per il bene proprio e, insieme, dell’intera società”.
Ma la differenza fra quei vaccini e quello di cui ora si tratta è evidente e già descritta; quindi, mutuare argomenti da contesti diversi risulta improprio.
Peraltro, sempre quell’ Organo di giustizia amministrativa, in un parere del 2017, affermo che “sulla base del riferito disposto costituzionale, dunque, la copertura vaccinale può non essere oggetto dell’interesse di un singolo individuo, ma sicuramente è d’interesse primario della collettività e la sua obbligatorietà – funzionale all’attuazione del fondamentale dovere di solidarietà rispetto alla tutela dell’altrui integrità fisica – può essere imposta ai cittadini dalla legge, con sanzioni proporzionate e forme di coazione indiretta variamente configurate, fermo restando il dovere della Repubblica (anch’esso fondato sul dovere di solidarietà) di indennizzare adeguatamente i pochi soggetti che dovessero essere danneggiati dalla somministrazione del vaccino (e a ciò provvede la legge 25 febbraio 1992, n. 210) e di risarcire i medesimi soggetti, qualora il pregiudizio a costoro cagionato dipenda da colpa dell’amministrazione”, aspetto che ora è stato invece trascurato, pur a fronte di un contesto molto più incerto quanto a ricadute.
Sempre la Consulta, nella sentenza 85/2013, affermava che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile, pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo «fondamentale», contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Né la definizione data da questa Corte dell’ambiente e della salute come «valori primari» (sentenza n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una “rigida” gerarchia tra diritti fondamentali. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale”.
Mentre, ancora il Consiglio di Stato, 14 febbraio 2018, n. 962, aveva ritenuto che la disposizione introdotta dal decreto Lorenzin avesse operato un bilanciamento tra opposti interessi, entrambi di rilevanza costituzionale: quello all’istruzione e quello alla salute. Tale bilanciamento che può essere operato unicamente dal legislatore, rientrando tale scelta della sua propria ed esclusiva discrezionalità, alla quale non può e non deve sostituirsi il giudice anteponendo un proprio personale convincimento che travalichi il chiaro contenuto della norma oggetto di applicazione. Nella sua valutazione discrezionale, il legislatore ha tenuto conto non solo del differente regime normativo esistente tra la scuola dell’obbligo e l’educazione pre-scolare, che si svolge presso gli asili nido e le scuole dell’infanzia, ma ha valutato anche la condizione soggettiva differente esistente tra i bambini di età superiore ai sei anni, e quelli da zero a sei anni. Questi ultimi, infatti, risultano molto più deboli, e come tali necessitano di maggiori di misure di precauzione e prevenzione. I rischi di contagio sono di certo più elevati, motivo per cui tra i bambini che frequentano i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia o che comunque frequentino luoghi in cui vi sia la presenza contemporanea di bambini di più famiglie. Ne deriva che la situazione sia giuridica che fattuale in cui versano i bambini che devono iscriversi alla scuola dell’obbligo, e quelli relativi alla fascia 0-6 anni, presenta tali differenze da non consentire l’estensione della normativa derogatoria prevista per i bambini più grandi a quelli di età ricompresa tra i 0-6 anni, se non a condizione di “disapplicare” l’art. 1, d.P.R. n. 355 del 1999 o, comunque, di applicare tale norma “in modo difforme” da quanto previsto dal legislatore. Il diverso regime è poi previsto anche da un’ulteriore normativa sopravvenuto: in merito all’ammissione alle strutture educative, il d.l. n. 73 del 2017, una distinzione: nei servizi educativi per l’infanzia e nelle scuole dell’infanzia, la presentazione della documentazione costituisce requisito di accesso; in tutte le altre scuole, la mancata presentazione non impedisce né la frequenza, né gli esami”.
Insomma, leggendo queste decisioni così stridenti fra loro, si ha l’idea che l’interpretazione del diritto, anche nelle sue più elevate espressioni, risenta del contesto nel quale si vada a calare, pur riferendoti alle stesse norme; e, così, pare che non ci siano ora guarentigie per gli avvocati, nemmeno laddove possano dimostrare la loro negatività all’infezione mediante tampone eseguito nei termini e forme prescritti.
Di contro, stando al tema legato ai vincoli che vengono ora a gravare sugli avvocati più “maturi”, è davvero da chiedersi se si possa porre il diritto individuale in soggezione, in nome dell’interesse generale, a prescindere dall’esistenza di efficaci modelli alternativi di tutela che pure si sono prospettati, mediante impiego dei tamponi.
Il diritto dell’individuo alla salute non può considerarsi in ogni caso cedevole nei confronti del dovere dello Stato e dei provvedimenti adottati a tutela dell’interesse della collettività, in adesione a fin troppo sfacciate strategie sanitarie discutibili, né potrebbe ritenersi che qualsiasi trattamento coattivo sia giustificato, solo perché anela al benessere sociale, tutto ancora da dimostrare.
Il diritto alla salute anche individuale si lega a quello del rispetto della persona umana e pone in primo piano il problema del consenso, la cui necessità può essere bilanciata solamente per dimostrate e imprescindibili esigenze di tutela di valori con pari dignità costituzionale ed, in ogni caso, anche con riguardo agli obblighi vaccinali, occorre bilanciare la tutela della salute collettiva con l’autodeterminazione individuale; fattore particolarmente significativo per il difensore, quale soggetto chiamato e tenuto ad esercitare il diritto di difesa di ogni individuo.
Infatti, mentre gli Uffici giudiziari -inquirenti e giudicanti- sono impersonali, il difensore interpreta una funzione strettamente legata all’individualità perché, a differenza dei Magistrati precostituiti per legge, è scelto dall’assistito e ne raccoglie la fiducia, sicchè il rapporto tra un cittadino e il suo difensore è presupposto fondamentale del diritto di difesa, se ancora di difesa si voglia parlare e non del suo simulacro.
Non si tratta di essere ribelli o di non avvertire il bene collettivo; ma una volta che si è disposti doverosamente ad offrire dimostrazione della propria negatività al virus, perché essere egualmente ostracizzati, a scapito anche di chi ha fiducia in noi ?
Cedere ora, senza aver prima risolto questo nodo, sarebbe una inaccettabileabile resa.
Avv. Gabriele Bordoni
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