ABUSI SEMPLIFICATI (contenuto: burocrazia, abuso di ufficio)
La riforma che, tendendo all’ennesima semplificazione della burocrazia, rimette in questi giorni mano al delitto d’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) mira -a sentire chi la propugna e sostiene- ad eliminare una possibile fonte di stasi degli appalti e dell’attività della amministrazione pubblica in generale.
I pubblici ufficiali, in sostanza, sarebbero timorosi di poter essere indagati alla stregua di quella norma, ritenuta troppo generica per come ora si presenta, venendo portati quindi all’ignavia, sino a paralizzare e far avvizzire ampie aree del Paese.
Ora, quel reato era stato oggetto di due riforme legislative che ne avevano modificato incisivamente la disciplina, intervenute nel 1990 e nel 1997, con un ritocco soltanto sulla pena nel 2012; in base a quegli interventi sono state escluse le intercettazioni per le indagini da condurre su quel delitto e la punizione è stata limitata al pubblico ufficiale od all’incaricato di pubblico servizio che intenzionalmente, violando leggi o regolamenti, procurasse a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o intenzionalmente arrecasse un danno ingiusto, escludendosi la rilevanza di abusi tendenti a vantaggi non patrimoniali.
Si era tuttavia precisato, da allora, che il delitto di abuso d’ufficio è configurabile non solo quando la condotta si ponga in contrasto con il significato letterale, o logico-sistematico, di una norma di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma attributiva del potere esercitato, concretandosi in uno “svolgimento della funzione o del servizio” che oltrepassa ogni possibile scelta discrezionale attribuita al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio per realizzare tale fine (C., Sez. V, 16.6.2010, n. 35501; C., Sez. VI, 25.9.2009, n. 41402; C., Sez. VI, 18.10.2006, n. 38965) o in uno sviamento produttivo di una lesione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, come nel caso di finalità ritorsive o vessatorie (C., Sez. VI, 5.7.2011, n. 35597).
E le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano precisato che ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione (C., S.U., 29.9.2011-10.1.2012, n. 155).
Peraltro, la violazione di norme di legge poteva essere integrata anche dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della P.A., per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi che impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione (C., Sez. VI, 17.2.2011, n. 27453; C., Sez. VI, 20.1.2009, n. 9862; C., Sez. II, 10.6.2008, n. 35048; C., Sez. VI, 12.2.2008, n. 25162; contra C., Sez. VI, 18.2.2009, n. 13097).
La Corte Cost., sul punto, aveva ammonito i giudici a una più prudente interpretazione della norma, maggiormente conforme a Costituzione, piuttosto che sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 323 c.p. (Corte cost., 14.7.2016, n. 177) e qualcuno aveva propugnato in tale ottica la formazione di linee guida della P.A. per standardizzare le prassi ed evitare incertezze nell’interpretazione del contegno tenuto dal Pubblico Ufficiale.
Insomma, governando con equilibrio il tema, sembrava che se ne fosse trovata una chiave di lettura equilibrata capace, da un lato, di evitar incriminazioni superficiali e pressappochistiche (a volte strumentalizzabili per fini extragiudiziari), dall’altro, di scongiurare che si creasse per i pubblici ufficiali uno spazio di discrezionalità illimitata e legibus soluta, capace di stritolare i diritti e gli interessi dei cittadini.
Ora, sull’onda emergenziale e con l’estate alle porte, si pensa di intervenire nuovamente sul tema, per le finalità segnalate, ma di fatto andando a porre questa norma sulla soglia del progressivo oblio: infatti, sostituendo il riferimento indispensabile attuale alla violazione “di norme di legge o di regolamento” con quello alle “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità” si vanno a porre le premesse per prefigurare che quella violazione, già di fatto ben poco statisticamente prolifica in termini di condanne, a breve tenda a scomparire (in netta controtendenza rispetto alla corruzione, sempre facile a demonizzarsi).
Questo nuovo scenario sbloccherà la P.A. dal tetano legato alla paura delle incriminazioni o, piuttosto, lascerà indifesi cittadini da sostanziali soprusi, sapientemente rivestiti di apparente conformità alle leggi ?
Lo staremo a vedere, anche se dall’esperienza degli ultimi trent’anni trarremmo indicazioni per la seconda ipotesi.
In ogni caso, quel che fa pensare è che si sia sentito il dovere ora di intervenire perché, nei fatti, si teme che quel delitto possa essere usato come spauracchio o come arma di ricatto o di vendetta, in tal modo assegnando alla Magistratura il ruolo di tramite inerte ed inaffidabile, pronta ad iscrivere e tenere indagato per anni qualcuno anche in assenza di presupposti, per trascuratezza quando non per altre poco nobili ragioni.
Insomma, ai giudici politicizzati si contrappongono politici e amministratori pubblici giuridicamente evoluti; in mezzo, giudici, politici e pubblici ufficiali che fanno il loro dovere e, soprattutto, cittadini che vorrebbero leggi efficaci e capaci di proteggerli, applicate a dovere da chi vi è deputato: ma forse è chiedere troppo.
Per adesso, accontentiamoci di semplificare ancora un po’, anche gli abusi.
Avv. Gabriele Bordoni
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