LA CERTEZZA DELLA PENA NELL’INCERTEZZA DEL FUTURO (contenuto: certezza, pena)
È trascorso solo un anno da quando l’Associazione Antigone, facendo ingresso in 85 istituti penitenziari per verificarne le condizioni effettive, ha registrato un aumento del numero detenuti nelle carceri italiane, pur a fronte di progressiva riduzione dei reati commessi negli ultimi anni; tendenza curiosa che, a giusta ragione, veniva ricondotta all’orientamento vieppiù repressivo assunto dal legislatore, sempre più teso ad inasprire a sprazzi il trattamento sanzionatorio delle numerose fattispecie incriminatrici presenti nell’ordinamento.
I detenuti, sempre un anno fa, ammontavano a circa 60.500 unità, con un esubero di ben 10.000 rispetto ai posti garantiti dalle carceri italiane, tanto da vedersi queste ultime riconoscersi il primato di carceri più affollate di tutta l’Unione europea, con buona pace della sentenza Torreggiani e delle sue censure al nostro sistema che la ritiene oramai seppellita nel passato; senza contare il “tasso di detenzione” che vede in Italia per ogni 100.000 residenti, 100 detenuti.
Sono dati che, se allora -e in tempi non sospetti- destavano stupore, oggi, in piena pandemia, divengono allarmanti: quelle anguste strutture carcerarie -inversamente proporzionali alla densità inframuraria- se, prima, non erano capaci di garantire spazi idonei ad un trattamento dignitoso, oggi possono persino rivelarsi nocive per la salute dei detenuti, anche e soprattutto alla luce della velocità di contagio del Covid 19.
Non a caso, pure il Consiglio d’Europa, intercettando tali necessità, ha invitato gli Stati, attraverso il ricorso alle raccomandazioni (atti di soft low e, dunque, non vincolanti) ad essere generoso nel riconoscere misure alternative alla privazione della libertà, laddove sussistano situazioni di sovraffollamento in questi tempi di contagio potenzialmente letale, con maggiore attenzione a quei detenuti vulnerabili a causa delle condizioni di salute o della anzianità, ritenendo che solo l’allentamento della pressione carceraria possa garantire un’efficace attuazione delle norme sanitarie che sono imposte, al di fuori del sistema carcere, in maniera cogente, sanzionandone pesantemente le trasgressioni.
Insomma, se i liberi sono obbligati a stare a distanza ed a seguire protocolli di sicurezza, i detenuti devono essere posti in condizioni che consentano loro di rispettare anch’essi quei precetti.
Il legislatore nazionale, anche in risposta ai sistematici moti accesisi in vari istituti a fronte dell’invasione negli istituti penitenziari del Covid 19 che aveva ormai intaccato un numero considerevole di detenuti, ha introdotto una serie di misure tese a rendere più agevole l’accesso alla misura dell’esecuzione della pena presso l’abitazione del condannato (o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza), anche andando a semplificarne l’annessa istruttoria.
In tal senso, l’art. 123 del d.l. 18/2020 -in deroga a quanto previsto dall’art. 1, c. 2 della l. 199/2010- prevede che, su istanza dell’interessato, la pena detentiva venga eseguita presso l’abitazione del condannato (o comunque ne luoghi sopracitati), qualora non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena.
Al contempo, per i condannati non ancora raggiunti dall’ordine di esecuzione, salvo che debba essere investito il Tribunale di sorveglianza, ai sensi dell’art. 656, c. 4, c.p.p., il Pm sospende l’ordine di carcerazione avente ad oggetto la pena detentiva inferiore a diciotto mesi; il PG della Suprema Corte ha stilato ad aprile un documento mirabile in quella direzione che rappresenta un condensato di saggezza e di rispetto dei valori del nostro Ordinamento giuridico.
Sempre al fine di allentare la pressione carceraria, l’art. 124 dello stesso decreto, prevede, ferme le ulteriori disposizioni di cui all’art. 52 della l. 354/1975, che, anche in deroga al complessivo limite temporale di cui al comma 1 del medesimo articolo, le licenze concesse al condannato ammesso al regime di semilibertà possono avere durata sino al 30 giugno 2020.
Ora, con riguardo alla misura della “nuova” detenzione domiciliare, si osservi che, proprio al fine di agevolarne la concessione, il legislatore ha alleggerito l’istruttoria, rispetto a quella prevista dalla l. 199/2010 -oltre che in forza di un contraddittorio differito- non prevedendo alcun accertamento in ordine alla concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga, ovvero in ordine a specifiche e motivate ragioni idonee a supportare una prognosi di recidiva.
Come si legge, infatti, nella Relazione Ministeriale di accompagnamento al decreto-legge, «la ragione di questa scelta è che si tratta di due presupposti che limitano l’utilizzo dell’istituto e che in questa fase di urgenza sono di complesso accertamento» (relazione ministeriale di accompagnamento al decreto-legge); pertanto, rispetto a detenuti la cui pena complessiva o residua da espiare è contenuta si è ritenuto possibile derogare a quei presupposti.
Va da sé, che per i soggetti maggiorenni che debbano ancora scontare una pena superiore a sei mesi e un giorno a 18 mesi è applicata -su consenso espresso del condannato- la procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici resi disponibili per i singoli istituti penitenziari «per elidere il rischio concreto di fughe, ma anche di reiterazione di condotte delittuose. Previsione esclusa per i condannati la cui pena da eseguire non sia superiore a sei mesi e per i condannati minorenni» (relazione ministeriale di accompagnamento al decreto-legge).
Di talché, il magistrato di sorveglianza, privato di un giudizio discrezionale, deve solo limitarsi a riscontrare l’inesistenza di una qualche causa di ostatività e cioè che non si tratti di condanna ricompresa dall’articolo 4-bis della l. 354/1975, nonché i reati di maltrattamento in famiglia e quello di stalking, divenendo quindi, proprio su questo punto, persino più restrittiva rispetto alla misura di cui alla legge 199/2010 che nulla prevedeva in tal senso, con ciò di fatto discostandosi dall’intentio legis di agevolare la riduzione della densità carceraria.
Sono parimenti esclusi da questo speciale beneficio, sotto un profilo personale, i delinquenti abituali, professionali o per tendenza, nonché i detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell’articolo 14-bis della l. 354/1975, n., salvo che sia stato accolto il reclamo previsto dall’articolo 14-ter della medesima legge;
A ben vedere, tale previsione si è rilevata ben presto utopica e poco attagliata alla concreta situazione odierna di carenza dei mezzi elettronici, dal momento che, in luogo di un esaurimento, rende inapplicabile l’istituto in questione.
Ciò è tanto vero che, al 31 marzo e, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria i detenuti sono 57.846 in Italia; sicché, l’uscita dagli istituti penitenziari di circa 4.000 detenuti, non può, ad oggi, ritenersi risolutiva per il sovraffollamento e non è immaginabile che la fornitura dei dispositivi dei braccialetti elettronici aggiuntivi rispetto a quelli già previsti -così come recentemente avanzato dal Commissario Arcuri- possa rendere effettiva la disposizione in questione.
Nel contempo, le visite dei parenti sono state contingentate quando non escluse o vicariate da contatti telefonici, facendo vieppiù crescere nei reclusi la condizione di isolamento dal resto del mondo: si sono trovati così ammassati e chiusi, per essere protetti dall’esterno, sulla scorta di indicazioni provenienti da un’organizzazione sanitaria che, pur encomiabile per l’impegno di medici e del personale paramedico, ha disvelato tutta la propria impreparazione rispetto questa emergenza, nonostante la stessa si presentasse certamente inconsueta per l’Occidente, ma niente affatto nuova o sconosciuta nelle modalità di diffusione.
Insomma, se da un lato la nostra civiltà super evoluta e tecnologica mostrava di avere ben poche certezze sul da farsi per tutelare i liberi, verso i detenuti invece dava conto di averne una, quella sempre portata a vessillo dal populismo più retrivo e stantio che vede nella pena, intesa come espiazione e segregazione carceraria, un risultato eccellente della Giustizia, l’unico approdo che sappia raggiungere il processo penale.
Ed, allora, lanciando lo sguardo verso il futuro prossimo -malcerto e forse cupo- non vedere superati nè rimeditati questi retaggi del più becero conformismo di matrice ancora medioevale, queste certezze da burocrati, lascia davvero ben poco margine all’ottimismo ed alla fiducia nel nostro sistema, rivelatosi ancora una volta acefalo e senza anima, impermeabile a quei valori di umanità ed a quei principi giuridici primari che dunque nemmeno la pandemia è riuscita a destare dal profondo ed annoso letargo.
Avv. Gabriele Bordoni
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