RIFLESSIONI A MARGINE DI UN SEMINARIO (contenuto: covid, rischio)
Il 20 aprile abbiamo potuto ragionare di diritto, nonostante tutto, valendoci della tecnologia telematica che mi sforzo di praticare.
Nel contesto dell’analisi della responsabilità degli enti collettivi per gli infortuni sul lavoro, si è anche trattato il tema dell’emergenza Covid 19 e di quanto questa determini la necessità di rivedere la valutazione del rischio negli ambienti d’impresa, comportando l’aggiornamento dei modelli di sicurezza aziendali.
Molti raffinati giuristi hanno già posto l’accento sulla circostanza che la pandemia, per il suo carattere ubiquitario, non possa essere considerato un fattore di rischio tipico del contesto lavorativo e, quindi, non rientri fra i temi di cui tenere conto in materia di prevenzione infortuni, se non nei limiti in cui si possa quantificare l’innalzamento del rischio di contagio, legato ad una particolare attività di lavoro, rispetto a quello generalizzato; soluzione ragionevole e giuridicamente corretta, anche in riferimento alle norme che regolano la materia.
Tuttavia, la Direzione di Inail assume formalmente che l’infezione da nuovo Coronavirus vada “trattata come infortunio sul lavoro (malattia-infortunio)”, atteso che “il presupposto tecnico-giuridico è quello dell’equivalenza tra causa violenta, richiamata per tutti gli infortuni e causa virulenta, costituita dall’azione del nuovo Coronavirus”, tanto da estendere il concetto anche agli infortuni in itinere ovvero agli esiti di incidenti da circolazione stradale, ma anche a tutti gli eventi infausti che colpiscano il lavoratore durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, compresi quindi anche gli eventi di contagio da nuovo coronavirus accaduti durante tale percorso.
In disparte la difficoltà di ricostruire l’origine di una infezione la cui patogenesi precisa ancora non è poi così ben chiara e tralasciando anche il peso che questa scelta riverbererà sull’Ente previdenziale (è bello ammettere tutti i contagiati in quei contesti al trattamento, ma è da chiedersi s e ve ne saranno le risorse necessarie), è da chiedersi se risponda ad un senso di equilibrio e di Giustizia, accedendo a questa qualifica, andare a porre a carico degli imprenditori anche responsabilità di carattere penale (ed a carico delle imprese il correlato amministrativo di cui al Dlgs. 231/01) per ipotesi che sarebbero quindi da considerare alla stregua di lesioni od omicidio colposo aggravati laddove si potesse addebitare al datore una inadeguata protezione dei dipendenti rispetto al contagio.
Infatti, uno Stato che non ha saputo evitare di chiudere il Paese per molte, troppe settimane e che ha mandato i propri uomini -Medici ed Infermieri, ma non solo-in trincea senza proteggerli, è quanto meno bizzarro che già sin da ora sia pronto a riversare costi programmatici ed a minacciare repressione penale inflessibile per chi non sapesse impedire al virus di colpire i propri sottoposti; si intenda, non vorremmo assistere in questo frangente alla deresponsabilizzazione di chi riveste una posizione di garanzia verso i propri collaboratori, ma ci piacerebbe che si evitasse l’uso di un rigore applicativo esasperato ed anelastico ad opera di chi per primo si è rivelato completamente inadeguato ed impreparato.
Anche perché, la Corte di Cassazione, Seconda Sezione penale, con la sentenza n. 28699 del 9 luglio 2010, ha precisato che “la natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria, ma non sufficiente, per esonerarlo dalla responsabilità da reato ex dlgs n. 231 del 2001, dovendo altresì concorrere la condizione che lo stesso ente non svolta attività economica” confermando la condanna, ai sensi del Decreto Legislativo 231 del 2001 di un ente ospedaliero che non si era dotato di un Modello 231 mentre la sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 24 aprile 2014 ha riguardato una società svolgente attività ospedaliera, rientrante fra i destinatari della norma proprio per la sua caratteristica di economicità, poiché “ogni società, proprio in quanto tale, è costituita pur sempre per l’esercizio di un’attività economica al fine di dividerne gli utili”.
Con la stessa sentenza, la Cassazione ha escluso l’eccepita inapplicabilità della disciplina in parola alle strutture ospedaliere sulla base dell’assunto che l’ente pubblico in oggetto sia chiamato a svolgere funzioni di rilievo costituzionale, precisando che non si deve confondere il valore della tutela della salute, sicuramente “di spessore costituzionale”, con il rilievo costituzionale dell’ente o della relativa funzione, “riservato esclusivamente a soggetti (almeno) menzionati nella Carta costituzionale”; dunque, non può essere sufficiente, ai fini dell’esonero dal Decreto Legislativo 231/2001, la semplice rilevanza costituzionale di uno dei valori coinvolti nella funzione dell’ente, in quanto una siffatta interpretazione porterebbe ad escludere dall’applicabilità della disciplina “un numero pressoché illimitato di enti” e non solo con riguardo al settore sanitario.
Pertanto, in relazione ai destinatari della normativa, si devono includere in tale elenco le aziende sanitarie locali, naturalmente quelle private, quelle “miste” per la gestione di servizi pubblici, nonché quelle private che operano nel settore sanitario in regime convenzionato: le Aziende Sanitarie Locali, ad esempio, in virtù dei Decreti Legislativi n. 502/1992 e 229/1999, che ne hanno mutato la qualificazione giuridica, si costituiscono con personalità giuridica di diritto pubblico, ma sono dotate di autonomia imprenditoriale ed agiscono attraverso atti di diritto privato.
Come recentemente ribadito dalla Corte regolatrice (Ord. 15/2/2019 n° 4593) l’Azienda sanitaria, quindi, già in forza del suindicato Decreto Legislativo 7 dicembre 1993 n. 517, ha perso il carattere di organo della Regione, acquisendo una propria soggettività giuridica con un autonomia che ha poi assunto, stante il disposto dell’art. 3, comma 1 bis, del Decreto Legislativo 502 del 1992, anche carattere imprenditoriale (“in funzione del perseguimento dei loro fini istituzionali, le unità sanitarie locali si costituiscono in Aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale”), disposizione quest’ultima che ha introdotto una recente giurisprudenza a ritenere che le Aziende sanitarie abbiano assunto la natura di enti pubblici economici (Tribunale Amministrativo Regionale Catanzaro IIa Sez. 17 gennaio 2001, n. 37 – confermata in appello dalla V Sezione del Consiglio di Stato con decisione 9 maggio 2001, n. 2609 – e 5 aprile 2002, n. 809).
Sicchè, proprio gli organi amministrativi e politici che sovraintendono all’impianto sanitario territoriale dovevano rispondere, con modelli adeguati, a quei compiti di valutazione rafforzata dei rischi, così da evitare o, almeno, da contenere ampiamente quanto invece si è drammaticamente verificato; e quello infettivo, per i sanitari esposti direttamente al contatto prolungato con i malati in caso di epidemia (che, ricordiamolo, è evento raro ma non sconosciuto affatto), non sarebbe stato poi un rischio così impreventivabile da “mappare” e da governare decorosamente.
Ma al riguardo hanno mancato, completamente, almeno in un numero esteso di casi.
E si consideri che la Regione Lombardia è proprio una delle poche che ha incentivato l’adozione di Modelli 231 da parte delle strutture ospedaliere, formulando linee guida per l’analisi del rischio, l’elaborazione di modelli ed il codice etico, in virtù di quel processo di “de pubblicizzazione” che tali enti hanno subito con il Decreto Legislativo n. 502/1992 e con il Decreto Legislativo n. 229/1999 (“la nuova configurazione connota le Aziende Sanitarie e Ospedaliere di tutte le funzioni ed i caratteri operativi dell’impresa, caratterizzati e qualificati dal concetto di professionalità”) e lo ha fatto “non unicamente per la prevenzione degli eventuali illeciti, ma quale ulteriore garanzia della migliore organizzazione e trasparenza dell’operato delle aziende…il miglioramento continuo della qualità ha costituito e costituisce un obiettivo verso il quale dirigere gli interventi di politica sanitaria, in quanto in grado di garantire al cittadino la migliore qualità ottenibile delle prestazioni erogate e pertanto tale processo induce l’ottimizzazione delle risorse e dei processi organizzativi e gestionali delle strutture sanitarie…”.
Poi sappiamo com’è andata; ed, allora, in questa consapevolezza, ci si deve rendere conto che non è l’ora di imporre nulla con tracotante fermezza, né di prospettare sanzioni inflessibili per gli imprenditori che venissero ritenuti inadempienti, ma piuttosto è quella di maturare insieme, Stato e cittadini, in una cultura del rispetto per l’altro e dell’attenzione alla sicurezza effettiva, non di “protocollo”; cercando così di costruire collaborativamente un domani in cui ogni ambiente organizzato -privato, così come di evidenza pubblica- sia capace di farsi trovare meno vulnerabile e smarrito.
Avv. Gabriele Bordoni
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